Nel 1895 nasce la Biennale d’Arte di Venezia. Nel 1995, nel contesto dell’edizione del suo centenario, veniva realizzata la prima rassegna in assoluto dedicata all’Europa Unita. Con l’aiuto di Genny Di Bert e Anna Mariani, la curavo alle Zitelle, presso gli Antichi Granai della Repubblica di Venezia, col patrocinio della Comunità Economica Europea (così si chiamava allora) e del CNR. Prima in assoluto perché non si trattava di mettere assieme vari artisti in rappresentanza di questa o quella nazione-membro. Si puntava a presentare artisti che avessero un segno espressivo non immediatamente o inconfondibilmente tedesco o spagnolo, secondo la vecchia tradizione delle nazioni alleate o belligeranti. Insomma, alla ricerca di un segno espressivo che potesse dirsi di primo acchito europeo. Più o meno con una qualche analogia con gli Usa: un artista dell’Oregon intanto è americano, e poi di lui si dirà del suo Stato di provenienza. Da qui il titolo di quella rassegna: La Nuova Europa (ottanta gli autori, tra cui Roy Ascott, Jiri David, Wim Delvoye, Erwin Wurm, David Mach, Jeffrey Shaw). “Il linguaggio dell’arte europea si è fatto sovranazionale, dunque eminentemente europeo prima che olandese, o francese o austriaco”. Nel dire questo, sottolineavo anche il carattere transitivo di queste espressività europee. Dal canto suo Emma Bonino, nella sua qualità di Commissario Europeo, in catalogo precisava: “non è poco faticoso il cammino: ma siamo tutti protesi a consolidare l’immagine dell’Europa unita, ad estenderla, ampliarla. Alla base, certo, l’economia. Sotto questo punto di vista, i vari Paesi intrattengono talora rapporti non privi di tensione. Ma sono proprio i problemi dell’economia che nello stesso tempo consolidano il dialogo, per via che le risorse ormai si spostano relativamente a grandi aree e non limitatamente all’ambito di piccole regioni”.
E 25 anni dopo o, se si vuole, un quarto di secolo dopo? Ampliamento dei Paesi membri; una policy più decisa; a un certo punto (anni 80-90) più espansiva oltre i confini naturali (verso l’Africa, ad esempio). Ma via via si affermava un eurocentrismo proprio al centro del continente, fino alla definizione dell’asse Germania-Francia con l’Inghilterra ago della bilancia. Grande impegno, certo opportuno, sul terreno economico e della gestione finanziaria; efficace attività nell’interscambio degli studenti (Erasmus, ecc.); progetti culturali; il fondo salva stati (European System Mechanism). Ora, 2019, la domanda è: esistono gli stati uniti d’Europa? Parzialmente e non chiaramente o in modo egualitario. Tutto ad ogni modo è opera della cultura. Ciò vuol dire che la cultura non ha fatto tutta la sua parte. Forse c’è stato un tuffo nella ripartizione “politica” dei fondi che non nell’amalgama culturale. Ma la cultura spontanea ha operato e continua ad operare. Da qui il paradosso in questa Biennale: una ferrea suddivisione formale dei padiglioni-stato, secondo la tradizione più pervicace, mentre, se ci si astrae da queste indicazioni burocratiche, le opere rivelano un flusso di libertà davvero sovranazionale. Sarà il caso che la Biennale riveda la sua organizzazione espositiva, mentre la UE punta a diventare sempre di più Stati uniti d’Europa. Con la mediazione della cultura, senza dubbio.