Si intitola “Un eroe” il nuovo film di Asghar Farhādi.
Farhādi è un regista iraniano con una storia di premi.
Ha vinto l’Orso d’Argento nel 2009 a Berlino a soli 37 anni per “About Elly”, due oscar come miglior film straniero, nel 2012, con “Una separazione” (vincitore anche dell’Orso d’Oro e del Golden Globe).
Infine, nel 2017, il successo de “Il cliente”, fino al recente premio speciale della giuria all’ultimo Festival di Cannes per il film “Un eroe”.
Il background del regista
Gli studi di teatro all’Università di Teheran permeano il suo cinema.
Le opere di Farhādi risentono dei testi di Ibsen, Čechov e Strindberg, più una tesi su Stanislavskij.
Il regista riversa la sua formazione sul grande schermo con una certa quanto impercettibile attitudine a dipingere l’assurdità di una società dove burocrazia e gerarchia deviano da questioni essenziali.
Predilige, insomma, cavilli formali atti a impedire l’autodeterminazione dell’individuo.
“Un eroe”, la trama
Così “Un eroe”, interpretato dal bravissimo Amir Jadidi, evoca i paradossi di Gogol, miseri perché mai tragici, fino anche a “L’idiota” di Dostojevskij, ponendo domande sulla natura della bontà.
La trama è ordinaria: un padre separato con una nuova compagna è in carcere per non aver onorato un debito.
Questo fatto per un pubblico occidentale forse desta qualche sorpresa rispetto all’immaginario precostituito collettivo sull’Iran.
In libera uscita, trova una borsa piena d’oro, con la quale conta di saldarlo.
Quindi cambia idea, forse tardi per forgiarsi della qualifica di eroe, e restituisce la borsa, senza quindi saldare il dovuto ad un imprenditore che non intende soprassedere per questioni di principio.
I media e i dirigenti amministrativi carcerari usano la vicenda per trasformare il nostro uomo comune, un po’ pavido e un po’ ignavo, in eroe modello nazionale.
“Un eroe”, le categorie del “buono” e del “cattivo”
La società su cui questo improbabile eroe si staglia è basata su una divisione senza sfumature intermedie non tanto fra bene e male quanto fra buono e cattivo.
La differenza non è da poco, poiché, Dostoevskij docet, nel male può trovarsi o derivarne il bene e viceversa, mentre il buono o il cattivo sembrano più essere categorie relative ai valori stabiliti dall’alto anziché dalla coscienza.
Il circo televisivo ha regole brutali quanto approssimative.
Poco interessato alla verità, che, grigia e circostanziale, non può definirsi in tre minuti di gloria, quindi stravolge l’esistenza del protagonista.
Questi, alla stregua del principe Myškin ne “L’idiota”, esprime una bontà più vicina alla buona fede che ad una reale determinazione a compiere sempre e comunque il bene. Fatto che gli verrà rimproverato dai carcerati: quanto importa essere buoni se sussiste l’incapacità di prendere posizione? La domanda morale non è da poco. Privo di conflittualità interiore, il poveretto resta in balìa degli eventi a cui non si oppone mai e finisce con il passare per manipolatore furbastro.
Il ruolo del figlio del protagonista
Dramma di iniziazione all’età adulta, sarà proprio il figlio piccolo a determinare la crescita del padre e ad obbligarlo alla scelta del giusto.
Quando dovrà scegliere se accontentare l’amministrazione carceraria, che vuole sfruttare il clamore della vicenda per insabbiare i suicidi in prigione, o salvaguardare la dignità del bambino, e dunque la propria, sceglierà la via dell’espiazione e tornerà in carcere.
Un processo alle intenzioni che smentiscono i fatti.
A cosa vale un gesto apparentemente buono se fatto per paura o per ignavia, e soprattutto, può avere buoni frutti un’azione non determinata dalla consapevolezza di sé?
In questo senso, con un impalpabile umorismo, senza retorica sentimentale, il regista rimanda la risposta a ciascuno di noi. Se la mano sinistra non deve sapere cosa fa la destra un motivo ci sarà pure. Nell’atavica conoscenza del fatto che laddove c’è desiderio di consenso si annidano perniciose piccole vanità.