La rosa rossa antica può essere oggi il simbolo di un mondo perduto che non si ritrova più. Questa nostalgia è simile a quella dell’antico tanguero di Buenos Aires, cosciente dell’ineffabilità dell’attimo fuggente. La nostalgia era, infatti, il sentimento che l’emigrante sentiva pulsare dentro di sé. Dopo anni dalla partenza, lo induceva a ricercare un ricordo che il più delle volte si rivelava deludente: per l’impossibilità di ritrovare ancora quel mondo lasciato, che veniva “ricreato” nelle atmosfere del tango.
Questo immaginario diviene una metafora della creazione: l’artista (come il tanguero) esprime la palpitante nostalgia-mancanza, che doppia nella “casa chiusa” della propria espressione. La sua arroganza prometeica ha la stessa divina nostalgia di un poeta di strada: “La vita se ne va, se ne va e non torna, la cosa migliore è goderla (…) io voglio morire con me, senza confessione e senza Dio, crocifisso alla mia pena come abbracciato a un rancore”.
I testi delle sue canzoni narrano ricordi, la terra e una donna lontana, la giovinezza perduta e naturalmente l’amore, anche quello mercenario. Infatti, il tango è nato nei bordelli e nei bassifondi delle periferie di Buenos Aires, come rivolta verso la cultura ufficiale. Il suo moto primario è la continua proiezione del passato, compiuta con la mente e il cuore per dimenticare il presente.
Il tango non è solo musica: è soprattutto poesia, la cui essenza vive oscuramente dentro di noi come colonna sonora di un’esistenza che scorre. Borges, negli anni ’30, sostiene che la vera poesia del nostro tempo sarebbe stata quella contenuta nei testi del tango: affermazione che ha la sua conferma nei testi che lo cantano. Questo ballo, è stato detto, può rappresentare un ultimo approdo dei poeti maledetti.
Il tango ha influenzato, con la sua struggente ed erotica significazione, i linguaggi della creazione: come nella pittura. L’abbigliamento dei tangueros influenza culture e periodi storici con i suoi accessori caratterizzanti: il gilet che il ballerino indossa con stile; il tacco a spillo della donna che danza, icona seduttiva al limite del feticismo.
La provocazione e la licenziosità delle origini del tango furono “purgate”, successivamente, per avere accesso nei salotti esclusivi della borghesia: a Parigi come a Buenos Aires, superando pure la condanna papale. E’ sintomatica, in tal senso, una lettera dell’11 gennaio 1914 di Marinetti dal titolo Abbasso il tango e Persifal, in cui denuncia l’illanguidimento di questa danza con i suoi cadenzati deliqui.
Rodolfo Valentino, illustre emigrante nato a Castellaneta (Taranto) nel 1885, approda in America nel 1913. Fa conoscere questo ballo nel mondo, entrando in scena vestito da gaucho, nel 1921 a Hollywood, per interpretare un tango audace e travolgente ne I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. L’inquietante ballo argentino si afferma così a Hollywood, conquistando la giovane industria cinematografica. La sua leggenda appartiene a quella del cinema muto, riattraversata in diversi film, tra cui Valentino (1978) di Ken Russel, interpretato dal grande danzatore classico russo Rudolf Nureyev che si rivela un suo intenso interprete.
Non so se la rosa rossa alchemica possa vivere ancora – oggi – nella pluralità dei tanghi danzati in dimensioni di diffusione mediatica e commerciale, continuamente ridefiniti nel loro possibile passo antico e nuevo. Probabilmente l’essenza antica del tango, che “racchiude in sé, come tutto ciò che è autentico, un segreto” (Jorge Luis Borges), è forse ormai perduta. Questo malinconica considerazione può far ipotizzare che oggi, fra i tanti mestieranti innamorati dei suoi esteriori adorni, possa “riemergere” di nuovo un tango antico ballato da poeti e artisti dell’anima.
Intendo presentare questa ipotesi in prossimi eventi.