Durante i forzati ozi natalizi mi sono voluto occupare di linguaggio visivo. Per non essere accusato di lavorare pro domo mea, conoscendo un poco anche quelli musicale e letterario, m’è venuta l’idea di servirmene, riportando solo la voce di persone appartenenti a quelle parrocchie. Non sono le uniche. Potrei citare per esempio frasi di Carmelo Bene su quello cinematografico o alcune di Marco Paolini per il teatro e, sul piano letterario, ma non solo, pescare da un celebre saggio di Susan Sontag che centra con una chiarezza rara l’origine del discorso contenutistico in arte in genere (1). Preferisco però rivolgermi all’aiuto di due soli autori la cui autorevolezza (scusate il bisticcio) è fuori discussione in due campi distinti che niente hanno a che vedere con l’arte visiva: Josif Brodskij per la poesia e Glenn Gould per la musica. Limitarsi a registrare solo le loro opinioni, oltre a garantire obiettività, offre il vantaggio di assicurare un’indiscutibile coerenza.
Infatti mi servirò solo di citazioni più o meno lunghe tratte da testi scritti in occasioni diverse, ma tutti di poetica: il mio commento sarà ridotto al minimo e avrà il solo obiettivo di legare fra loro discorsi fatti in occasioni particolari e magari lontani fra loro nel tempo. Questo florilegio servirà a illustrare la mia opinione sul linguaggio visivo, perché tutte le parole estratte valgono per me anche per questo. È da sottolineare poi che JB e GG non sono critici di professione, ma poeti, poeti nel loro linguaggio, e se si sono occupati di critica lo hanno fatto per la pagnotta (dichiarandolo) e forse anche perché altri al posto loro non lo facevano bene. Ambedue sono stati molto generosi nei confronti dei colleghi della stessa disciplina e questo è a favore della loro obiettività. Naturalmente hanno avuto, come tutti, i loro bravi paraocchi, ma l’ampiezza dello sguardo sulla poetica altrui sia dell’uno che dell’altro è stata molto superiore a quella di qualsiasi critico di professione.
La critica d’arte non sta molto simpatica neanche a me, ma quando si riscontrano lacune così ampie nel campo di cui ci si occupa, è gioco forza impegnarsi con la penna e se, non sarà mera presunzione, verrà giudicato da chi avrà la pazienza di leggere fino in fondo.
La penna. Già, perché si tratta di usare la lingua franca, non il linguaggio specifico, elettivo. La lingua di Marcel Duchamp e co, la lingua di Germano Celant, quella di Alberto Boatto, a essere buoni, ma anche la lingua di qualsiasi giornalista accreditato sulle riviste d’arte, di qualsiasi studioso della materia, dai più seri ai meno, la lingua usata in questo caso anche da JB e da GG, l’unica con la quale è possibile affrontare l’argomento. Non più dilazionabile, visto che l’arte è arrivata dove è arrivata e quello che ho definito il Barocchetto Volgare domina la scena internazionale, trascinando con sé anche elementi di culture altre, comunque molto interessanti, ma nelle condizioni del clima instauratosi ovunque, finite anch’esse cotte nel minestrone.
Siamo in trincea. E lo siamo perché da molto tempo, a partire dal celebre Pissoir di Duchamp, pochi saranno disposti a seguirmi sulla specificità dei linguaggi. Pensiamo a uno come John Cage: influenzato dal francese ma comunque artista vero, mi darebbe addosso senza pietà da quando “4’ e 33’’ (significativamente ma erroneamente titolato come Silence dalla critica duchampiana) ha fatto la sua comparsa nelle sale da concerto. Il silenzio di Duchamp, seguito dal rumore assordante provocato da tutti gli altri e soprattutto dai critici, nel pezzo in questione è stato imitato alla perfezione dal musicista americano: per quell’intervallo di tempo si scatena solo il rumoreggiare del pubblico. Ma c’è da riflettere sul fatto che, al termine dell’interruzione, l’orchestra riprende a suonare. Al contrario il rumore provocato dal silenzio di Duchamp continua ancora oggi.
In trincea sono pochi i compagni. Parlo della trincea da combattimento sulla linea del fronte della lingua franca, contro l’influenza nefasta di colui che parlò del puzzo di trementina e di idiosincrasia per il retinico, dopo che ebbe la brillante idea di lavorare con gli objets trouvés. Confermo, brillante. Che io sappia soltanto Franco Vaccari con il suo Duchamp messo a nudo ha osato dare una mano. A parole (verba volant) conosco molti artisti che si dicono solidali, che continuano a lavorare come se Lui non fosse mai esistito e sostengono che invece di chiacchierare, come faccio io, bisogna esprimere le proprie opinioni, appunto, solo lavorando: del resto non lo faceva anche Constantin Brancusi, amico di D. e fornitore di sculture che aiutavano a sopravvivere entrambi? (2)
L’argomento non è capzioso e anch’io lo seguo. Solo che, limitandosi a questo, la trincea rimane vuota, perché nessun critico, nessun esperto nella lingua franca è disposto a seguirmi.
Bene, rischio di annoiarmi e di annoiare. Sono immerso in una vasca d’acqua calda (e me la godo tutta), reduce da una cura in un ospedale (per Covid) di un sistema sanitario certamente carente sul piano della medicina di base, ma non nelle strutture ospedaliere (per me lo Stato ha speso per il mio ricovero almeno trecento euro al giorno e non ero un’eccezione: accanto a me era ricoverata una signora senza fissa dimora, una “barbona” e con lo stesso trattamento); dimesso, ero in un supermercato a scegliere il pane che più mi piace tra una ventina o forse un centinaio di variazioni (e sono contro il consumismo!); torno a casa un po’ debole, ma tutto sommato curato, in un luogo caldo e accogliente; apro il computer e mi metto a scrivere le cazzate che leggete. Ma immerso nella vasca calda mi attraversa la testa un’immagine: quella di bambini africani privi di latte, di sostanze nutritive di base, destinati a morire o comunque a malattie gravi per inedia. Già, mentre a me salta in testa di parlare di linguaggio visivo, di linguaggio specifico in generale: a chi, dotato di un minimo di empatia, può interessare?
Lo vedremo signori, a fine testo.
Parlano JB e GG alternativamente. Premetto che quanto dicono appartiene a un passato di un quarto di secolo fa ma, a mio avviso, sempre attuale e che il mio è un florilegio arbitrario. Altri potrebbero scegliere dallo stesso contesto altri brani, ma il loro discorso è coerente e parla per me.
Di Gould ho tratto le citazioni dall’edizione Adelphi L’ala del turbine intelligente, il cui titolo l’editore ha mutuato da un testo in cui il formidabile pianista commenta Le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, composizione che lo ha impegnato praticamente tutta la vita: tanto per parlare di serietà d’impegno e dare una spintina a chi ignora il tema della specificità dei linguaggi artistici. Del russo le citazioni vengono da numerosi testi che lo stesso editore ha pubblicato praticamente subito dopo l’assegnazione a lui del Nobel per la Letteratura (1986). Si tratta di Dolore e Ragione, Profilo di Clio, Fuga da Bisanzio, Il Canto del Pendolo e infine di una raccolta di interviste, Conversazioni, rilasciate a giornalisti e colleghi americani fino a una settimana dalla morte (1996). Come accennato, l’impegno nella critica d’arte di ambedue questi poeti è stata, soprattutto per il secondo, obtorto collo: si sa che la poesia non paga mentre la prosa un po’ di più. Ma lo hanno fatto ambedue con una serietà e una costanza che nessun critico ha mai dato per nessuno (ci sono naturalmente eccezioni e penso per es. a Gianfranco Contini per la letteratura e a Giovanni Battista Cavalcaselle o Giovanni Morelli per l’arte visiva): GG presentava dischi da lui stesso interpretati (aveva scelto di lasciare le sale da concerto e dedicarsi esclusivamente alle registrazioni (scelta che ha a che vedere con il “lo vedremo” di cui sopra), mentre JB girava il mondo e soprattutto l’America per conferenze nelle varie prestigiose università di quel Paese.
Le citazioni tratte da quest’ultimo saranno corredate semplicemente dalla provenienza dei testi, mentre quelle dal secondo esigono una presentazione. GG, nei suoi commenti all’opera di vari musicisti, pur parlando la lingua franca usa termini tecnici tali che non aiutano a seguire il discorso chi è digiuno di nozioni di tecnica musicale. Non potendo poi le citazioni essere troppo estese, è opportuno avvertire che quanto riporto è insufficiente: si tratta di un discorso lungo e complesso, che va comunque letto per intero. I pezzi che riporterò saranno in ogni caso utili a entrare nel merito della questione. Lui parla di tonalità, variazioni, fughe, cromatismi, sequenze ecc.., tutti termini pertinenti al suo mestiere di interprete, ma lo fa con un occhio al linguaggio musicale e alla sua assoluta specificità tale da non lasciare dubbi sull’insufficienza della lingua franca che è costretto ad usare per farsi capire. Diverso è il caso di JB: la sua lingua franca è più che esaustiva: la poesia è un’altra cosa, mentre la prosa a volte può essere confusa con il linguaggio elettivo. Infatti lui si lamenta spesso di doverla usare e nei confronti di quella letteraria con finalità artistiche è sicuramente troppo severo. Dove mettiamo Samuel Beckett o David Foster Wallace (per indicare solo due capisaldi della prosa agli estremi del secolo XX?).
Chiunque dalle parole da me spese fin qui si sia convinto che l’arte visiva, al pari della musica e meno della poesia, non sia semantica, (1) può tranquillamente interrompere la lettura e non proseguire. Ma se Duchamp, il negatore del valore retinico, ha gettato un’ombra su di lui o anche semplicemente un dubbio (e ne conosco tanti e fra questi anche artisti di valore), è bene che si immerga nel florilegio che gli propongo.
Cominciamo con Glenn Gould:
Riporto un brano tratto da Arte della Fuga, per dimostrare la sua attenzione nei confronti del proprio strumento di interpretazione, che è la prima virtù di un artista. Bisogna sapere però che per lui… la musica di Bach, non contiene indicazioni né di tempo né dinamiche; dovrò quindi evitare con cura che l’entusiasmo di una convinzione interpretativa si presenti come l`inalterabile assolutezza della volontà dell`autore. Inoltre, come ha saggiamente osservato Bernard Shaw, fra i compiti del critico non rientra l`analisi grammaticale…
… Bisogna riconoscere, a credito dello strumento a tastiera moderno, che il potenziale della sua sonorità, quell’implicita ricchezza di legati morbidi e setosi, può essere ridotto oltre che, sfruttato a fondo, se ne può fare uso, oltre che abuso. E in realtà, a parte uno stretto rigore archivistico, non vi è nulla che impedisca al pianoforte moderno di rendere con fedeltà le implicazioni architettoniche dello stile barocco in generale e di quello bachiano in particolare…
…Come L’Arte della fuga, anche il Clavicembalo ben temperato è stato eseguito (per intero o in parte), oltre che sullo strumento di cui porta il nome, al clavicembalo, al pianoforte, da complessi di archi o di fiati, complessi jazz e da almeno un gruppo di vocalisti. È questa splendida indifferenza a una sonorità specifica non è la minore fra le attrattive che sottolineano l’universalità di Bach.
Mi sembra interessante, per illustrare quanto ho affermato circa la destinazione dell’arte, cioè il suo pubblico, quanto GG afferma ne Le variazioni Goldberg. Infatti in quest’articolo è spiegata chiaramente la ragione del suo abbandono delle sale da concerto in favore di quelle di registrazione: non si tratta solo di una preferenza per un controllo minuzioso di tutta la composizione, controllo che è possibile solo in queste ultime, né solo di un sano approccio ai vantaggi della tecnologia digitale, ma anche di idiosincrasia per il pubblico delle prime: selezionato, snob e comunque mai popolo nel senso da me indicato alla fine di questo scritto. GG non aveva peli sulla lingua e spesso si è espresso molto negativamente nei confronti dell’atmosfera da iniziati “intima e assorta” che si ritrova sempre nelle sale da concerto. Ecco in tre righe la sua posizione:
Secondo me la radice di ogni male non è tanto il denaro quanto lo spirito competitivo, e nel concerto si può vedere una perfetta analogia musicale di questo spirito.
E a conferma della posizione di cui sopra, basta questa frase, dettatagli dall’esame de Le ultime tre sonate di Beethoven:
L’analisi di Marliave sull’ “atmosfera intima e assorta che incanta l’uditore” illustra un’interpretazione di queste opere basata su congetture filosofiche invece che sull’analisi musicale.
Quanto alla sua posizione nei confronti della critica ufficiale, basti questa frase tratta dalla Perorazione per Richard Strauss:
Per questi critici è inconcepibile che un uomo così geniale non abbia desiderato contribuire all’arricchimento del linguaggio musicale, che un autore cui la sorte aveva concesso di scrivere dei capolavori ai tempi di Brams e Bruckner e di sopravvivere a Weber fino a vedere l’epoca di Boulez e Stockhausen, non abbia voluto trovarsi un posto tutto suo nella grande vicenda dell’evoluzione musicale. Che cosa si deve fare per spiegare a costoro che l’arte non è tecnologia e che la differenza fra un Richard Strauss e un Karl Heinz Stockhausen non è paragonabile a quella fra un umile addizionatrice da ufficio e un elaboratore IBM?…
… Un’ultima valutazione del nostro ipotetico brano: supponiamo che, anziché attribuirlo a Haydn o ad un compositore più tardo, l’improvvisatore lo faccia passare per un’opera, a lungo dimenticata e recentemente scoperta, nientemeno che di Antonio Vivaldi, nato settantacinque anni prima di Haydn. Sono quasi sicuro che dopo una simile presentazione il pezzo verrebbe salutato come un’autentica rivelazione storica, una prova della genialità profetica del grande maestro, il quale avrebbe scavalcato con un solo balzo prodigioso tutti gli anni che separano il barocco italiano dal rococò austriaco; e il nostro povero brano sarebbe dichiarato degno di figurare nei programmi delle grandi occasioni. Quasi tutti i nostri criteri estetici si basano quindi, malgrado le nostre fiere rivendicazioni di indipendenza di giudizio artistico, su un principio che non ha nulla a che fare con quello dell’arte per l’arte, ma che si potrebbe definire “dell’arte rispetto alla società dell’epoca”.
Sempre sulla critica ufficiale, ma questa volta dall’articolo Strauss e il futuro elettronico:
… Il punto debole di questa tesi sta nell’incapacità dei suoi fautori di ammettere che l’adesione a un determinato movimento storico non impone l’obbligo di accettare le conseguenze logiche. Uno dei tratti più irresistibilmente simpatici degli esseri umani è la loro scarsissima propensione ad accettare le conseguenze dei loro ragionamenti… La verità è che, a parte ogni considerazione di età e di resistenza, l’arte non è opera di animali razionali (cosa che, in ultima analisi, non le nuoce affatto).
Credo che una lucidità come quella espressa in questi brani sia veramente rara, come rara è la sicurezza di giudizio di GG nei confronti del rapporto dell’arte con i tempi in cui viene creata: non si misura in rapporto alla società dell’epoca, ma in un certo senso solo a se stessa, a un discorso semplicemente di linguaggio. In parole povere, i tempi dell’arte non sono quelli della storia.
Da Arnold Schoenberg: una prospettiva estraiamo quattro brani in cui GG dimostra un notevole coraggio di giudizio nei confronti delle novità in campo linguistico. Un ridimensionamento non di Schoenberg, ma della critica che, appoggiandosi a lui e alle indubbie qualità innovative della sua composizione, ha sottovalutato quelle di suoi contemporanei, giudicandole “reazionarie” (come se l’objet trouvé avesse cancellato di colpo la lingua di Pablo Picasso e di Georges Braque, tanto per fare un esempio nel nostro orticello):
La grande arte non procede sempre verso ciò che, analiticamente parlando, potremmo chiamare emancipazione: a me sembra anzi che si possano benissimo riconoscere grandi anche opere composte da artisti considerate dai loro contemporanei come pericolosi reazionari… Per chi come me ha una predilezione per le ultime composizioni di Strauss, è indispensabile adottare un criterio di giudizio più flessibile di quello che ubbidisce all’equazione novità uguale progresso uguale grande arte…
… I primi sostenitori dell’atonalità non mancarono di fare orgogliosamente notare che il movimento astrattistico cominciò quasi contemporaneamente a quello atonale, ed effettivamente è possibile trovare alcune facili analogie fra le carriere del pittore Kandinsky e del musicista Schoenberg. Credo però che sia pericoloso insistere troppo su queste affinità, per il semplice motivo che la musica è sempre astratta, non ha connotazioni allegoriche se non in senso supremamente metafisico e non pretende né ha mai preteso, a parte qualche rara eccezione, di essere altro che un modo per esprimere i misteri del comunicare sotto una forma altrettanto misteriosa.
Mi sembra quindi che sia un grave errore interpretare in chiave unicamente sociale la straordinaria trasformazione della musica contemporanea. Non si può certo negare che esistano rapporti fra l’evoluzione di un ceto sociale e l’arte che si sviluppa attorno ad esso (il carattere pubblico delle prime musiche barocche, ad esempio, si può far dipendere in qualche misura dalla prosperità di una certa classe mercantile nel Cinquecento), ma è molto pericoloso ricorrere a complesse argomentazioni sociologiche per spiegare una trasformazione che interessa essenzialmente l’aspetto tecnico della disciplina artistica…
… Un ultimo motivo, poi, è certo il fatto che ogni musica deve obbedire a un sistema e che è molto più necessario aderire a questo sistema, accettarne tutte le conseguenze nei momenti di rinascita, come appunto quelli in cui ci ha condotti Schoenberg, che in una fase successiva e più matura della sua esistenza…
… Secondo me la conseguenza principale è stata senza dubbio la separazione fra pubblico e compositore. È una verità sgradevole, ma è la verità. Molti accusano Schoenberg di aver spezzato per sempre il legame che univa il pubblico al compositore, distruggendo i punti di riferimento comuni e creando fra di loro un profondo antagonismo, e sostengono che il suo linguaggio non si è imposto perché è privo di quel sistema di rimandi emotivi cui sono generalmente sensibili gli ascoltatori di oggi.
La musica colta dei nostri giorni, o quanto meno quella che ha subìto in larga misura l’influenza di Schoenberg, ha sicuramente un peso irrilevante nella vita quotidiana di molte persone ed è ben lontana dal suscitare l’interesse destato cinquanta o sessant’anni fa dalle più significative fra le composizioni nuove.
E qui GG tocca un punto importante. Quello del distacco tra la musica colta e il pubblico nella sua accezione più ampia. Certo non si può attribuire ad Arnold Schoenberg la responsabilità di questo distacco, e lui non lo fa, ma non si può ignorare che questo distacco è avvenuto e il pubblico della musica così detta colta è una minoranza che non se ne rende conto. É compito dei compositori più seri, come aveva capito anche Schoenberg con la sua attenzione per il jazz, colmare questo distacco: penso a certi brani di Bruno Maderna e di Luciano Berio. Questo discorso, si sarà capito, interessa anche il nostro orticello, ma la soluzione non è certo quella indicata dalla pop art. Lo riprenderemo in seguito.
Passiamo ora a JB e come nel caso di GG, illustriamo la sua posizione nei confronti del proprio mestiere di scrittore. É un brano tratto dall’esame minuzioso di un’importante poesia di Robert Frost, Home burial, in un saggio intitolato Un’immodesta proposta in Dolore e ragione. Nello stesso saggio si evidenzia la sua posizione nei confronti della cultura e del rapporto arte e vita:
Leggere poesia, se non altro, è un processo di formidabile osmosi linguistica. E anche una forma assai economica di accelerazione mentale. Entro uno spazio ridottissimo una buona poesia abbraccia un immenso territorio mentale, e spesso, verso l’epilogo, offre al lettore un’epifania o una rivelazione. Questo avviene perché nel processo di composizione un poeta adopera – in genere senza nemmeno saperlo – i due principali modi di cognizione disponibili alla nostra specie: l’occidentale e l’orientale. (É vero, naturalmente, che i due modi sono disponibili ovunque esistano lobi frontali, ma le diverse tradizioni li hanno adoperati con diversi gradi di pregiudizio). Il primo asseconda generosamente il razionalismo, l’analisi. In termini sociali, è accompagnato da autoaffermazione dell’uomo ed è esemplificato in generale dal «Cogito ergo sum›› di Descartes. Il secondo si affida principalmente alla sintesi intuitiva, invoca l’autonegazione ed è rappresentato, come meglio non si potrebbe, dal Buddha…
… D’altronde l’arte non imita la vita, ma la contagia.
Quanto a scrivere poesia, nello stesso volume in Corteggiando l’anonimato, ecco chiaramente sintetizzata la sua posizione:
Di sicuro i motivi sono tanti e così ovvi da togliere di mezzo tutta la questione. Uno sarebbe, per cominciare, il puro piacere di scrivere o leggere un verso memorabile: un altro, la logica puramente linguistica – e il bisogno – di metro e rima. Ma oggi, ormai, la nostra mente è condizionata in modo da operare per vie indirette e tortuose, mentre a quel tempo pensavo solo che una buona rima è ciò che alla fìn dei conti salva la poesia dal pericolo di diventare un fenomeno demografico. E a quel tempo i miei pensieri andavano a Thomas Hardy…
… Se un’epoca può essere paragonata a un sistema politico, una porzione significativa del clima culturale del nostro secolo potrebbe, a buon titolo, essere definita una tirannia: la tirannia del modernismo. O per dirla più esattamente, di ciò che naviga sotto quella bandiera.
Mentre in Novant’anni dopo, sempre in Dolore e ragione e a proposito di Orfeo. Euridice. Ermes di Rainer Maria Rilke, ecco il suo pensiero sulla dea di tutte le arti, Mnemosine, e del rapporto storia arte:
Infatti il potere della memoria (che spesso mette in ombra la nostra stessa realtà) ha la sua fonte in un senso di incompiutezza, di interruzione. Quello stesso – va notato – che sta dietro al concetto di storia. La memoria è essenzialmente un prolungamento, con altri mezzi, di ciò che è rimasto incompiuto.
E sullo stesso argomento in Un volto non comune, tratto dal Discorso per il Nobel, del 1986 e poi in Elogio della noia, due dei saggi raccolti in Profilo di Clio:
Non c’è niente che possa persuadere un artista dell’arbitrarietà dei mezzi ai quali ricorre per raggiungere uno scopo – per quanto permanente possa essere – come lo stesso processo creativo, il processo della composizione. Davvero, come dice Anna Achmatova, i versi nascono dall’immondizia; né le radici della prosa sono più nobili.
Qui, naturalmente, sta il potere salvifico dell’arte. Non essendo lucrativa, ha una certa riluttanza a cadere vittima della demografia. Perché se, come abbiamo detto, la ripetitività è madre della noia, la demografia è l’altro genitore…
… Qui sta la distinzione ultima tra l’amata e la Musa: questa non muore. Lo stesso vale per la Musa e il poeta: quando lui è scomparso, lei si trova un altro portavoce nella generazione successiva. Detto in altro modo, la Musa frequenta sempre il linguaggio e non sembra importarle di essere scambiata per una ragazza qualunque.
In Profilo di Clio estraggo altre affermazioni estremamente illuminanti la sua posizione nei confronti del linguaggio elettivo, la poesia e la letteratura in genere:
Ciò che detta un componimento poetico è il linguaggio, ossia la voce del linguaggio, quella che noi conosciamo sotto i nomignoli di Musa o Ispirazione.
C’è un abisso immenso tra Homo sapiens e Homo scribens, giacché per lo scrittore il concetto di «tema» si manifesta, se pure si manifesta, come esito di un processo che combina le varie tecniche e i diversi strumenti. Scrivere è letteralmente un processo esistenziale, un processo che usa il pensiero per fini suoi propri, consuma concetti, temi e simili, non viceversa…
… Poi venne la svalutazione, inevitabilmente, e la reazione prese i nomi di futurismo, costruttivismo, imagismo e così via. Ma erano «ismi» che si opponevano ad altri «ismi», espedienti contro espedienti. Soltanto due poeti, Mandel’štam e Marina Cvetaeva, si fecero avanti con un contenuto qualitativamente nuovo, e il loro destino rispecchiò in maniera fedele e terribile la loro autonomia spirituale…
… La civiltà è la somma totale di differenti culture animate da un comune numeratore spirituale, e il suo principale veicolo – in senso metafisico e in senso letterale – è la traduzione. Il lungo cammino di un portico greco che arriva alla latitudine della tundra è una traduzione.
La sua vita, come la sua morte, fu un risultato di questa civiltà. In un poeta l’atteggiamento etico, anzi il temperamento stesso, è determinato e plasmato dall’estetica. Questo spiega perché i poeti si trovano invariabilmente in contrasto con la realtà sociale; e il loro tasso di mortalità indica la distanza che il reale frappone tra sé e la civiltà.
Nell’esame minuzioso di una poesia di Wystan Hugh Auden, scritta alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, 1° Settembre 1939, presente nel Canto del Pendolo, in inglese Less than one:
Semplicemente, suppongo, mi rifiutavo di credere che nel lontano 1939 un poeta inglese avesse detto: “Time worships language”, e che tuttavia il mondo intorno fosse ancora quello che era.
Una rima trasforma un’idea in legge; e ogni poesia è in un certo senso un codice linguistico…
… ora un poeta non sceglie il proprio metro; è tutto il contrario, perché i metri sono più vecchi di qualsiasi poeta…
… Ma non si seziona un uccello per scoprire le origini del suo canto. Quello che va sezionato è il vostro orecchio…
… Del resto, l’arte in genere nasce sempre come risultato di un’azione rivolta verso l’esterno, obliquamente, verso l’acquisizione (cognizione) di un oggetto che con l’arte non ha alcun rapporto immediato. L’arte è un mezzo di locomozione, il paesaggio che balena al finestrino di un treno…
… C’è di più: la differenza tra il linguaggio (l’arte) e la realtà sta specificamente nel fatto che qualunque enumerazione di ciò che non esiste più o non esiste ancora è una realtà del tutto indipendente. Per questo il non-essere, e cioè la morte, che consiste essenzialmente e interamente di assenza, non è nient’altro che una continuazione del linguaggio.
Una miniera di saggezza, tratta dalle sue esperienze di esule dal regime sovietico immigrato in una società che si dichiara democratica, dominata comunque da tutta una serie di pregiudizi sull’arte e la storia, ci viene regalata dall’applicazione di una lente di ingrandimento eccezionale, puntata sul mestiere del poeta, il rapporto tra questo e il linguaggio e tra questo e la società in cui opera.
Sempre da Less than one:
Il modello lineare, un prodotto dell’istinto di conservazione, ottunde quello stesso istinto. Sia come sia, comunque, entrambe le versioni del socialismo, quella tedesca come quella russa, si modellarono esattamente sul principio del determinismo storico, che riecheggiava, in un certo senso, la ricerca della Città dei Giusti.
Letteralmente, occorre aggiungere. Perché il tratto principale del determinista storico è il suo disprezzo per la classe rurale, e l’insistita attenzione per la classe dei lavoratori urbani. (Ecco perché in Russia rifiutano ancora di de-collettivizzare l’agricoltura, mettendo – letteralmente, anche in questo caso – il carro davanti ai buoi).
Ancora, sempre da Less than one:
I pagani, anche se sconfitti, avevano nel loro Pantheon la Musa della Storia, dimostrando con questo di comprenderne la divinità meglio dei loro conquistatori. Temo che non esista una figura simile, un raggio d’azione comparabile nell’intero e ben studiato percorso dal peccato originale alla redenzione. Temo che il destino della nozione politeistica del tempo, in mano al monoteismo cristiano, rappresenti il primo stadio della fuga del genere umano dal senso di arbitrarietà dell’esistenza verso la trappola del determinismo storico. E temo che sia precisamente questo universalismo nel senno di poi a rivelare la natura riduttiva del monoteismo.
Particolarmente interessante il suo giudizio sull’elitismo dell’arte, nella stessa raccolta e presente nell’edizione italiana in Fuga dalla civiltà in Fuga da Bisanzio:
Vorrei spingermi un passo più avanti, a questo punto. Di per sé la realtà non vale un accidente. È la percezione a elevarla, a promuoverla alla dignità di significato. E c’è una gerarchia tra le percezioni (e, parallelamente, tra i significati): una gerarchia che ha al vertice le percezioni acquisite attraverso i prismi più raffinati e sensibili. Affinamento e sensibilità sono conferiti a questi prismi dall’unica possibile fonte di approvvigionamento: la cultura, la civiltà, il cui strumento principale è il linguaggio. La valutazione del reale fatta attraverso uno di questi prismi – e l’acquisizione di questa capacità è uno degli scopi cui tende la specie – è perciò la più esatta, forse anche la più giusta. (Se a questo punto si levano grida di “Vigliacco” e “Elitista”, e magari si levano, guarda un po’, proprio in certe università occidentali, sarà bene infischiarsene, perché la cultura è “elitista” per definizione, e l’applicazione dei princìpi democratici nella sfera della conoscenza porta a mettere saggezza e idiozia sullo stesso piano).
Nella lettera (nell’edizione Adelphi in Profilo di Clio) che JB scrive a Vaclav Havel, collega scrittore diventato Presidente della liberata Cecoslovacchia, c’è un passo sullo stesso argomento.
Eccolo:
Così come sarebbe davvero scomodo – specificamente per i cowboy delle democrazie industriali occidentali – riconoscere nella catastrofe che si è verificata sul territorio degli indiani d’America il primo grido della società di massa: un grido, per così dire, dal futuro del mondo, e riconoscerla non solo come un “ismo” ma come una voragine che si è spalancata improvvisamente nel cuore umano, a inghiottire onestà, compassione, civiltà, giustizia, e che, una volta saziata, ha presentato al pur sempre democratico esterno una superficie monotona, ragionevolmente perfetta…
… Essendo stato spesso paragonato a un re filosofo, lei può, Signor Presidente, comprendere meglio di molti altri quanto di ciò che è successo alla nostra «nazione indiana» si ricolleghi all’Illuminismo, con la sua idea (derivante dall’epoca delle scoperte geografiche, in effetti) del buon selvaggio, della bontà innata dell’uomo che le cattive istituzioni solitamente guastano, con la sua fede nel fatto che migliorando quelle istituzioni la bontà naturale dell’uomo sarà ripristinata.
Dalle interviste raccolte in Conversazioni, le risposte alle domande postegli dai vari intervistatori precisano in maniera illuminante la sua posizione nei confronti del linguaggio:
Steven Birkerts: Usi “intervento divino” come una sorta di metafora psichica?
JB: Quello che intendo, in realtà, è l’intervento del linguaggio su di te e dentro di te. È come in quel famoso verso di Auden su Yeats: “la folle Irlanda ti ferì facendoti poeta”. Ciò che ti “ferisce” e ti rende poeta, o scrittore, è il linguaggio, è la tua sensibilità nei confronti del linguaggio. Non sono la tua filosofia personale o il tuo credo politico, e nemmeno la tua spinta creativa, o la giovinezza…
… S.B. Quali sono i tuoi momenti più ispirati allora, quando stai lavorando nelle profondità del linguaggio?
JB: Il punto di partenza è questo. Perché se per me esiste una divinità, questa è il linguaggio.
Dall’intervista di David Montenero:
Nella prosa non c’è niente che ti impedisca di sbandare, di perderti in digressioni.
In poesia, la rima ti tiene sotto controllo. Il mio atteggiamento di base verso la prosa — a parte che è un mezzo per guadagnarsi da vivere, perché infatti la prosa te la pagano, se non meglio, quantomeno più facilmente della poesia -, quello che posso dire in favore della prosa è che forse è più terapeutica della poesia…
… Ma ci sono agnostici e agnostici. E direi che i poeti, in ultima analisi, venerano una sola cosa, che non conosce altra incarnazione se non nelle parole, vale a dire… il linguaggio. Al giorno d’oggi l’atteggiamento di un poeta verso la Divinità Suprema assente è più di rimprovero per la Sua assenza che non di puro giubilo o di osanna…
… Più c’è confusione, più grande è la gloria per chi riesce a mettere un po’ d’ordine. C’è sempre stata – la confusione, intendo. É che oggi, data l’esplosione demografica, abbiamo avuto anche un aumento esponenziale di avvocati del diavolo. Oggi il dubbio è più in voga delle convinzioni.
Dall’intervista concessa a Missy Daniel:
Più un uomo è esteticamente, per così dire, evoluto, meno è, a dir poco, soggetto a ogni tipo di – come posso chiamarle? – idiozie sociali. É meno soggetto alla demagogia, all’autocompiacimento, incluso il summenzionato, è meno soggetto a quella specie di vocazione universale a crogiolarsi nell’idea che siamo vittime di questa o quella circostanza. L’estetica sviluppa la dignità umana. Ci rende più resistenti, più indistruttibili sotto vari aspetti, no? Una buona poesia agisce su di te…
... la gente pensa in pensieri e sogna in sogni. Poi li raccoglie nel linguaggio. Quando cresciamo il linguaggio diventa il nostro modo di espressione naturale e per questo crediamo di pensare in una lingua…
... La poesia è un’arte irrimediabilmente semantica, non c’è nulla da fare. Si deve scrivere qualcosa che abbia senso. È l’aspetto che la distingue dalle altre arti… da tutte le altre arti.
Il mestiere del poeta sono le parole, è la creazione delle parole, il linguaggio. Quindi se pensi di scrivere la biografia di un poeta, devi scrivere la biografia dei suoi versi… la capacità di vivere, di esistere, di creare qualcosa a partire dal tessuto della vita è molto più limitata della capacità di creare qualcosa a partire dal tessuto del linguaggio. Quindi se cerchi quel genere di combinazione, può finire che ti ritrovi con molto poco tra le mani.
Dall’intervista concessa a The Argotist:
A: “Le apparenze sono tutto l’esistente” (Less than one). David Hockney ha detto che “tutta l’arte è superficie” e che la superficie è “la prima realtà”. State dicendo la stessa cosa? E quali profondità vengono negate quando si privilegia la superficie?
JB: Non esiste alcuna profondità: l’apparenza è la somma dei fenomeni…
… A: Ieri parlava della rabbia e della persecuzione. Potrebbe dirci qualcosa sulla natura della catarsi in poesia, nella sua poesia?
JB: A essere sincero, non è una categoria di cui mi servo. E a riguardo alla catarsi nell’arte in generale, non bisognerebbe mai credere che la si possa determinare semplicemente attenendosi a questo o a quel principio. Un’opera d’arte o una poesia possono indurre la catarsi attraverso aspetti secondari o terziari dell’opera, una certa rima, per esempio; senti sollievo, e sei libero.
Tornando al suo libro in prosa più importante (Less than One), nel saggio intitolato All’ombra di Dante, ecco una chicca:
A differenza della vita, un’opera d’arte non è mai accettata per quello che è, viene sempre messa a confronto con le opere del passato, con precursori e predecessori…
… La poesia, in fondo, è già in sé una traduzione; o, per dirla in altro modo, la poesia è uno degli aspetti della psiche riversati nel linguaggio. Non è tanto che la poesia sia una forma d’arte: piuttosto, l’arte è una forma cui ricorre spesso la poesia. In sostanza, la poesia è 1’articolarsi della percezione, il tradursi di questa percezione nel patrimonio ereditario del linguaggio, perché il linguaggio è, dopo tutto, il migliore strumento disponibile.
Ancora, ma da Il suono della marea:
Se etica ed estetica fossero sinonimi, la letteratura sarebbe la provincia dei cherubini, non dei mortali. Per fortuna, però, è tutto il contrario: i Cherubini, con ogni probabilità, essendo già abbastanza impegnati nei loro cori, non avrebbero tempo per inventare il monologo interiore…
… Niente di male, in fondo, perché quello che va a scapito dei serafini va sempre a profitto dei mortali.
E poi, un estremo o l’altro è di per sé alquanto noioso, e nell’opera di un bravo scrittore cogliamo sempre un dialogo tra le sfere celesti e la fogna.
Infine, da Catastrofi nell’aria:
Nel migliore dei casi sarà ritenuta soggettiva o elitista. Sarebbe un verdetto abbastanza equo, se non dovessimo ricordare sempre che l’arte non è un’attività democratica: nemmeno l’arte della prosa che pure ha un’apparenza tale che chiunque può sentirsi autorizzato a praticarla e a giudicarla.
Il fatto è, però, che il principio democratico, così ben accetto in quasi tutte le sfere dell’impegno umano, non trova applicazione in almeno due di esse: nell’arte e nella scienza…
… La storia dell’arte è una storia che procede per addizioni e affinamenti, allungando la prospettiva della sensibilità umana, arricchendo o, più spesso, condensando i mezzi di espressione.
Quanto sopra non lascia dubbi su come la pensavano questi due sui loro specifici linguaggi, musicale e letterario. Ma questo pensiero può essere esteso all’arte visiva? Presumo di aver addotto ragioni sufficienti perché la risposta sia sì. Quelle contrarie sono naturalmente tratte solo dal Grande Maestro Francese.
Costui è autore del gesto forse più rivoluzionario del Novecento, perché ha spostato l’attenzione sul già fatto e ha gettato un ponte verso l’operatività comune, quella di tutti. Ma si è riflettuto a sufficienza sul fatto che, oltre a quel gesto, l’accompagnamento che ne è seguìto, con le affermazioni di idiosincrasia nei confronti del “puzzo di trementina” e di diffidenza nei confronti del “retinico”, ha bloccato l’arte, deviandola su un sentiero che, con l’aiuto di qualche artista vero (penso soprattutto a Andy Warhol), l’ha portata inevitabilmente al Barocchetto Volgare che viviamo oggi? Non è una domanda retorica: da parte della critica abbiamo sofferto, tutti noi della parrocchia, grandi e piccini, di questo condizionamento: si è buttata a pesce sulle affermazioni di questo ultimissimo illuminista (3), perché dava la stura a una serie di discorsi che non tenevano affatto conto della specificità del linguaggio visivo, dell’impossibilità di ridurre il suo messaggio a un discorso nella lingua franca. E così si sono scritti tomi e tomi, assegnando a Duchamp la patente del più nominato in assoluto nell’ultimo secolo. Certo l’amico Brancusi continuava a credere nel retinico (con vantaggio anche di D. che vendendo le sue opere lo aiutava, e aiutava se stesso, a vivere). E così facevano tutte le persone serie, a cominciare dai suoi colleghi dell’epoca (per citarne solo alcuni, Pablo Picasso, Alberto Giacometti, Georges Braque, Giorgio de Chirico) a finire ai successivi miei contemporanei: il linguaggio visivo non si tocca e i discorsi lasciano il tempo che trovano.
Anche il mio, in questo momento. Ma mi preme, prima di finire, tornare a quel “vedremo” che ho piantato come un cuneo in mezzo a questo sproloquio. E qui interviene un discorso che ha poco a che vedere con l’arte e molto con il rapporto che essa intrattiene con il sociale. Quindi la politica. Appoggiandosi anche alle parole dei due artisti del florilegio, arte e vita hanno molto poco in comune. Poco, non niente e quindi occorre precisare.
Vediamo di condire il piatto con qualche considerazione aggiuntiva, ma lo farò prendendo in considerazione il passato. C’è da ragionare e non poco sul fatto che la Cia nel periodo della Guerra Fredda abbia finanziato e promosso l’arte americana dichiaratamente anticomunista (4) e che, dall’altra parte della barricata, il KGB si desse da fare per sopprimere qualsiasi pensiero libero nell’URSS: non basta dire così va il mondo e lavarsene le mani. L’ingerenza della politica e del mercato nell’arte sono e restano inquinamenti gravi e richiedono un ragionamento a parte. Del resto la pratica di eliminazione sistematica (ancor prima della Soluzione Finale, ufficialmente dal ’39 al ‘42’), (5) messa in piedi dai nazisti nei confronti dei propri connazionali “indegni di vivere perché malati di mente o di peso per la comunità”, chiarisce senza ombra di dubbio che siamo tutti complici nelle pratiche contro il “diverso”. Il pensiero deve spingersi fino a interrogare se stesso, perché l’eugenetica non è un’invenzione di Hitler e forse in qualche modo ha a che vedere con l’Illuminismo, chiamato in causa proprio dalla Scuola di Francoforte negli anni “successivi a Auschwitz”(3). Un artista vero non deve mettere la testa sotto la sabbia: può commettere errori anche gravi sul piano della morale corrente, ma deve esserne cosciente: solo il linguaggio è puro. Questo significa svincolarsi dai condizionamenti politici, come hanno saputo fare per es. Osip Mandel’štam e Marina Ivanovna Cvetaeva durante il regime stalinista o dall’altra parte della barricata Wystam Auden negli Stati Uniti. Faccio solo degli esempi, tra i quali è opportuna una menzione di lode nei confronti di un russo come JB o di un canadese come GG.
Tornando nel nostro campicello, ricordo che il Grande Caravaggio non fu certamente perdonato dalle madri di chi lui assassinò (un paio), anche se questo non toglie nulla al suo valore come artista visivo. Voglio dire in parole povere che il metro col quale valutiamo l’arte non è quello della morale, ma dell’onestà intellettuale nei confronti del linguaggio elettivo. L’arte, preciso, non la vita. Se l’uomo, come afferma JB, è “prima un animale estetico e poi etico”, ciò non vuol dire che lo Stato Pontificio non dovesse inseguire l’artista a Napoli piuttosto che a Messina per fargli regolare i conti con la giustizia: era dalla parte delle madri summenzionate e se ne fotteva che quello fosse un grande pittore (grande soprattutto perché non si peritava di guardare con occhio apertissimo le miserie umane e si alzava all’alba per mettersi sotto il palco per assistere all’Assassinio di Stato di Beatrice Cenci e della sua famiglia: il sangue praticato dalle sue Giuditte scorreva a fiumi). Con questo certamente non mi sento di chiudere l’argomento dell’implicazione di Duchamp nell’Affaire Cia all’epoca in cui lui era negli Stati Uniti. Ma nel giudizio sul valore della sua opera è giusto che la critica seria ammetta almeno, per coerenza, che l’arte visiva, come del resto la musica, non ha alcun valore semantico. Chiedo troppo?
Tornando a noi, alla contemporaneità con un occhio al recente passato, dicevo che Warhol ha dato una mano alla pletora dei critici che ancora campano sul francese e le sue sparate. L’aura e l’aurum, con buona pace di Walter Benjamin, vanno a braccetto, soprattutto dove domina il mercato (fortunatamente, perché dove domina l’Arte di Stato le condizioni sono peggiori). Questo aiutino ha fatto danni enormi, a giudicare da cosa è successo dopo di lui. Non mi interesso di gente come Jean Michel Basquiat, ma del fatto che la caratteristica e sana superficialità del sentire dell’inventore della pop, che ha prodotto capolavori come i suoi sketch cinematografici e la sua grafica, non significa andare verso il popolo. Quest’ultimo non è superficiale, sa bene che per es. i cuscini luccicanti e volanti nelle sale del Museo di Pittsburgh, quanto di più significativo possa aver prodotto l’americano sulla leggerezza della vita, non sposterà di una virgola il suo problema. Parlo del popolo in tutte le sue sfaccettature e non certo quello che può permettersi di acquistare una sua grafica e foraggiare la sua flotta privata di aerei.
Il popolo è quello formato da elettricisti, stura-cessi, rottamai, casalinghe di Voghera (compresa mia moglie) ecc. ecc., da quelli insomma che, entrando per caso nello studio di un artista rimangono perplessi: la loro mancanza di “sovrastrutture intellettuali” li mette in condizioni di sentire, non pretendo il famoso “colpo d’ascia nel mare di ghiaccio del lago del cor”(6), ma che qualcosa è veramente successo in quel mondo dell’arte che a loro è rimasto sempre estraneo. Non voglio insistere, ma se non parli il loro linguaggio, non hai fatto centro. E questo è costituito dagli strumenti che loro usano tutti i giorni (per lo meno ne è un derivato), spaccandosi il culo per guadagnarsi la pagnotta. Il popolo è questo. L’altro, quello dei collezionisti e degli esperti ne è una piccola frangia, utile a farci campare tutti, ma vagolante nel deserto delle gallerie e dei musei. Il popolo vero purtroppo ne è stato fuori fino ad oggi e se non segue più il crocifisso di Cimabue nelle processioni ci sarà un motivo!
Siamo all’empasse, ma avanzo una speranza e una modesta proposta: per uscire dal guado bisognerà partire di nuovo dalla specificità del nostro linguaggio, quindi dalla sua assoluta autonomia dalla semantica.
Grazie dell’ascolto.
Note
- Against interpretation, Penguin Books, 1965. Di questo saggio mi piace riportare alcune frasi (trad. mia) perché sostengono senza mezzi termini quanto vado dicendo sulla non semanticità dell’arte visiva:
Dopo aver sottolineato che l’origine contenutistica dell’arte in genere risale addirittura a Platone e Aristotele (É un fatto che la coscienza e la riflessione occidentale sull’arte è sempre rimasta dentro i confini stabiliti dalla concezione greca di questa come mimesi o rappresentazione), la Sontag prende lo slancio e afferma che l’interpretazione, basata sulla dubitabile teoria che un lavoro d’arte si componga di contenuti, lo viola. Ma è più precisa: una fuga dall’interpretazione sembra lo scopo particolare della pittura contemporanea, da una parte dell’astrattismo e dall’altra per eccesso di superficialità della pop.
Non voglio qui riassumere un testo particolarmente illuminante sulla sua posizione nella lotta fra la forma e il contenuto (sul quale ultimo si concentra senz’altro il lavoro della critica), ma devo citare almeno la chiusa: Ciò che è importante oggi è riscoprire i nostri sensi: dobbiamo imparare a vedere di più, a udire di più, a sentire di più … Al posto di un’ermeneutica abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte.
2. FDL, In Forma, L’arto a lato, In forma di Pamphlet, Ed. Bacacay, 1993.
3. M. Horkeimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, 1947.
4. Quando la politica si intromette nell’arte, non c’è da aspettarsi niente di buono. Lo stesso successo di JB in America, negli anni in cui il regime sovietico lo espulse dall’URSS ma ancora di Cold War, può apparire sospetto. Lui aveva sposato senza riserve la democrazia, ma è significativo che quando Solzenicyn ottenne il premio Nobel, e fu negli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino, non si peritò di osservare che “fu una gigantesca commessa navale svedese dalla Russia a determinare la decisione”. Ma la sua posizione nei confronti della letteratura del suo collega e connazionale non è mai stata politica (e del resto è ampiamente spiegata in un saggio molto lungo su di lui): questo significa coerenza.
Che la Cia, durante la Guerra Fredda ma anche negli anni successivi, facesse di tutto per promuovere gli artisti americani dichiaratamente di destra e non “comunisti” (“Non vogliamo che i nostri contribuenti paghino i nemici della democrazia”) naturalmente getta un’ombra non indifferente sul successo di qualcuno. Non occorre scomodare Noam Chomsky e la sua Fabbrica del consenso per sostenere quanto apre questa nota. Quindi che anche Duchamp fosse implicato e seriamente nelle manovre dei servizi segreti americani (e ciò è ampiamente documentato) non stupisce affatto e basterebbe da solo a spiegare il suo successo in quel Paese (successo poi esportato anche in Europa con l’aiuto di mercanti piuttosto interessati, come in Italia Arturo Schwarz). Ci sono prove inoppugnabili sul suo coinvolgimento nella campagna della Cia negli anni in cui lui espatriò dalla Francia occupata e non si tratta di pettegolezzi politici. Va comunque rilevato che la spigliatezza nel comportamento di molti artisti nei confronti della politica è sicuramente all’origine dello stato di fatto attuale, in cui il mercato ha sostituito l’azione dell’intelligence. Esso ormai è diventato l’unica dimensione della vita (come aveva profetizzato un amico di Adorno (H. Marcuse). Perché il mondo dell’arte ufficiale ne dovrebbe star fuori? Del resto, dall’altra parte della barricata, Mario Sironi e Arturo Martini, tanto per fare un paio di esempi, erano fascisti, ma questo nulla toglie al fatto che fossero grandi artisti. L’onestà intellettuale pertanto costringe questa nota a basare il giudizio sulla figura di Duchamp esclusivamente sull’esame della sua posizione nei confronti del linguaggio visivo. È questo a doverci impegnare qui. Ma non è un handicap, proprio perché, come sostiene giustamente anche JB, una cosa è la vita e un’altra il linguaggio elettivo. Nella prima siamo tutti insufficienti e debitori gli uni degli altri, nel secondo le uniche regole da seguire sono, appunto, l’onestà intellettuale e la coerenza. Ciò non toglie che affermazioni del tipo “La mia arte sarebbe quella di vivere ogni istante, ogni respiro; è un’opera che non si può ascrivere a nessun ambito specifico, non è né visiva, né cerebrale. È una specie di euforia costante” appaiano quanto meno ridicole e molto illuminanti sulla sua stessa intelligenza. La senilità, il successo gli avranno dato alla testa? Non basta un gesto rivoluzionario a definire la grandezza di un artista; è il lavoro quotidiano sul linguaggio a determinare il giudizio finale. Su questo dovrebbe esprimersi la critica seria. A cent’anni dalla data di quel gesto non è ancora stato fatto.
5. La famigerata T4, le cui vicende sono state narrate da Marco Paolini in Ausmerzen (Einaudi, 2020) clandestinamente lavorò dal ’42 fino al giorno in cui entrarono in Germania le truppe americane, aprile del ‘45.
6. Franz Kafka.