Come se l’organo dotato d’un paio di raffinatissimi “obbiettivi” di contatto col mondo potesse essere appagato da uno schermo piatto con luce retrostante! Come se non fossimo in grado, con un semplice colpo della sua sensibilità, captare, oltre ai colori, la distanza e la massa del corpo che ci sta di fronte!
Piange la scultura
Con quello stesso organo piangono Rembrandt e le sue pennellate rugose, piange Veronese dal fondo telato del Refettorio della Fondazione Cini a Venezia e piange tutta la scultura che ha ancora il corpo come veicolo del suo messaggio. Rimane inesorabilmente immobile il Corridore niente popo di meno che di Boccioni: l’occhio non perdona: il bronzo pesa almeno due volte il ferro e niente è in grado di nasconderlo, nemmeno il disegno frenetico di quell’artista, perché la scultura non può essere ridotta a semplice gesto, ha un corpo, sempre. Se dico ferro penso alle spirali di Serra, se dico stoffa al cumulo di indumenti di Boltanski o alla tovaglia di Fabro, se dico gesso penso a una qualsiasi delle sculture di Icaro o alla gipsoteca crivellata di Canova, se dico marmo… Beh, pensateci voi, è facile.
Se dico bronzo il pensiero va a Riace, al mito di Scilla e Cariddi che ci ha restituito un mondo sepolto in fondo al mare dalla svendita democristiana di quella splendida terra che fu la Calabria, penso a Orazio e al suo perennius e via andare più su, a Giacometti e ancora più su all’obliato Alik Cavaliere che, pescando rose fra le pattumiere dei cimiteri milanesi ha fatto dimenticare (finalmente!) la retorica ottocentesca del Monumento d’Italietta e resuscitare il Gattamelata. Tale è il potere dell’occhio, quello sano.
Il caso della MAF di Pioltello
Tutta questa bella pappardella per dare l’allarme del pericolo che corre la struttura architettonica che ha ospitato la più antica e famosa fonderia artistica del Nord Italia, la MAF di Pioltello: sono forti le pressioni di chi ne vuole l’abbattimento.
Da un secolo e mezzo è passata da qui la crème della scultura che si è occupata di bronzo, non solo europea.
Le tracce di questa vita esibiscono il loro fascino all’interno di grandi capannoni (3.000 mq) fra gessi di formazione, incrostazioni di prototipi, guanti da lavoro consunti, vecchissimi manifesti di mostre appesi a pareti affumicate, cumuli di teste, mani gesticolanti in mezzo a umili panchetti sepolti dal luto, bocche di forno aperte ecc. : una straordinaria testimonianza di quella operosità artigianale, di quella cultura del fare che ha reso l’Italia la meta da tutto il mondo.
La predominanza della pop art
Rischia di sparire: gli sforzi per mantenere in piedi la sede storica da parte di colui che ne dirige l’attività possono risultare inutili. Le orde del popartismo d’accatto dilagante oggi, il restyling di matrice americana giustificano quest’allarme: viene a mancare la consapevolezza del vero significato affidato all’architettura, l’arte finalizzata a proteggere la vita attiva. Non si tratta di decoro. Quaroni avvertiva: “la città è come l’uomo, non può vivere senza memoria” e, aggiungo io, senza un sogno.