Se dovessimo contrassegnare con una data la nascita della Cina contemporanea, dovremmo scegliere gli anni Settanta del Novecento. Più esattamente quel febbraio del 1972 quando, per la prima volta, un presidente americano, Richard Nixon, andò in visita ufficiale a Pechino. Un evento storico di eccezionale portata che avrebbe impresso una svolta alle vicende internazionali per i successivi decenni. Occorre quindi contestualizzarlo.
La leadership comunista cinese, guidata dal “grande timoniere” Mao Zedong, si era lasciata alle spalle una secolare lotta senza quartiere per affermare l’indipendenza e l’autodeterminazione del Paese. Il conflitto con i colonizzatori europei, che tentavano di assoggettare il gigante asiatico e spartirselo in zone d’influenza, aveva avuto inizio già a metà dell’Ottocento. Mentre i giapponesi, a loro volta, avevano occupato diverse zone del Paese, con l’intenzione di espandere l’influenza di Tokyo sull’intero continente. E ancora la rivoluzione e la guerra civile fra nazionalisti e comunisti. Solo nel 1949 le armi tacevano, con il ritiro dei nazionalisti a Taiwan (allora Formosa) e la fondazione della Repubblica Popolare Cinese.
L’immenso Paese asiatico oltre a ricostruire il tessuto sociale ed economico, lacerato da cento anni di conflitti, doveva provvedere a soddisfare i bisogni più elementari della popolazione. L’alimentazione, la sanità e l’istruzione dovevano essere garantiti senza poter sperare nell’aiuto dalla comunità internazionale, che non riconosceva la Cina Popolare neanche in sede Onu, preferendole la Cina nazionalista di Taiwan. L’assistenza dell’Urss, condizionata al riconoscimento della leadership sovietica da parte della dirigenza di Pechino, non era accettabile.
Dunque, la Cina comunista visse i suoi primi decenni in un isolamento planetario, affrontato sulla base parola “autosufficienza”. La Cina doveva bastare a se stessa e attrezzarsi, nei limiti del possibile, a respingere ogni eventuale attacco militare sul proprio territorio.
In questo clima autarchico, però, l’evoluzione del progresso sociale avveniva in modo lento, e pericoloso per il mantenimento dell’ordine sociale. Tanto che i due tentativi di accelerazione, ispirati da Mao Zedong – il “grande balzo in avanti” e la “rivoluzione culturale” – si sono rivelati un totale fallimento.
Era necessario imprimere una svolta alla politica estera di Pechino, con l’apertura agli aiuti da parte dei paesi occidentali. Ma la gerontocrazia alla guida del Partito si mostrava reticente, temendo come conseguenza il ritorno del sistema capitalistico in Cina. Fu solo negli anni Settanta che i sostenitori della “politica della porta aperta” sono riusciti a coniugare l’aiuto dei Paesi capitalisti con le basi ideologiche del marxismo maoista, senza creazione di conflitti.
Dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, cresceva sempre di più la disponibilità a un’intesa di massima con Pechino. Due le ragioni: da una parte, negli Usa, si voleva controbilanciare la forza dell’Urss, acquisendo alle spalle di Mosca un poderoso alleato come la Cina. Dall’altra si prospettava la possibilità di aprire un mercato che, negli anni Ottanta, avrebbe sfiorato il miliardo di consumatori.
Il comunismo “illuminato” di Deng Xiaoping
Nel 1971 l’Onu aveva deliberato di accettare come rappresentante dello Stato cinese il delegato di Pechino, che andava a sostituire quello di Taiwan, la Cina nazionalista. Il viaggio in Cina di Nixon del 1972 faceva dunque parte di un mutamento di atteggiamento dell’Occidente nei confronti dello Stato asiatico. Si inquadrava in una strategia di lungo respiro messa a fuoco da Henry Kissinger che, nel 1971, aveva incontrato almeno due volte, segretamente, i dirigenti di Pechino allo scopo di preparare le condizioni per nuove relazioni fra Usa e Cina. Il viaggio di Nixon rese ufficiale i nuovi accordi, che diventarono pubblici alla fine del 1972 con il Comunicato di Shanghai. Gli Usa riconoscevano “una sola Cina”, considerando Taiwan parte di essa. I contraenti dichiaravano inoltre di non voler nutrire in futuro mire egemoniche sul Pacifico, impegnandosi a intervenire se una terza potenza avesse avanzato pretese su questa vastissima area.
Usa e Cina, nonostante la radicale differenza fra i rispettivi sistemi politici e sociali, avrebbero praticato la via della coesistenza pacifica.
La vecchia guardia della leadership di Pechino era piuttosto riluttante ad abbandonare il principio dell’autosufficienza. Ma con la morte di Mao Zedong, nel 1976, dopo una breve lotta per la successione, emerse come leader indiscusso Deng Xiaoping, l’anziano compagno di lotta di Mao. Deng impose un approccio molto pragmatico ai problemi del Paese, che sintetizzò alla maniera cinese nel motto: “Non importa il colore del gatto purché prenda i topi”. Il che significava proseguire sulla strada dell’apertura all’Occidente, governandone attentamente le conseguenze. Nel 1979 volò negli Stati Uniti per incontrare il presidente Carter, rassicurare circa le intenzioni pacifiche della Cina nella politica internazionale, posizione che Deng trasferì anche agli intellettuali americani, parlando nelle loro università. Da quel momento in poi migliaia di giovani cinesi e di quadri del Partito andarono a studiare nelle università americane. Vari gruppi di imprenditori e finanzieri Usa visitarono il Paese asiatico per concludere accordi commerciali. Deng aveva ben compreso che la modernizzazione passava attraverso l’importazione di tecnologie occidentali e l’utilizzazione di cospicui investimenti in dollari.