Romeo Castellucci e la sua “Bérénice”

Romeo Castellucci e la sua
Isalebbe Huppert, foto di Jean Michel Blasco, courtesy LAC Lugano Arte e Cultura

“Mala tempora currunt”, non se ne può dubitare alla luce dei tragici avvenimenti che coinvolgono gran parte del globo. I responsabili di ogni evento negativo sono sempre gli esseri umani, i cui difetti sono connaturati.

La tragedia

L’uomo e la sua condizione è un tema caro alla cultura greca che ha trovato nella tragedia il luogo a cui affidare lo strumento per descrivere il patimento umano in ogni sua forma.

La tragedia fa capire l’eterno fallimento delle azioni umane che conducono al patimento dell’umanità, costretta a subire il giudizio delle divinità che regolano l’equilibrio sociale. Ogni azione umana contraria al volere degli dei prevede una conseguenza a danno dell’intera collettività, generando supplizi, determinando la natura caduca della vita umana costellata di errori.

Il Seicento francese e la tragedia

Il Seicento francese riprende il genere della tragedia, contrapponendola alla farsa e alla commedia destinate a un largo pubblico.

In quel clima Jean Racine, considerato il massimo esponente della tragedia seicentesca francese, indaga il dolore e la miseria umana, senza perdersi nel processo che li determina. In questo sta la novità: Racine mette in secondo piano le azioni e si focalizza sui moti interni espressi dalle parole. Scava nell’animo e mette in luce la contrapposizione fra sentimenti e doveri.

Con Racine la tragedia torna a essere centrale soprattutto per un pubblico raffinato borghese e aristocratico, diversamente dal teatro di Molière votato alla comicità e ad una platea più ampia.

Bérénice è la tragedia che Racine scrive in versi alessandrini nel 1670. La protagonista è la principessa di Palestina, Bérénice, la quale, all’indomani della morte dell’Imperatore romano Vespasiano e dell’ascesa al trono del figlio Tito, suo promesso sposo, si piega alla legge romana che non ammette regine straniere e accetta, non senza sofferenza, la separazione da Tito. La sua virtù sta nella forza interiore che le consente di superare l’abbandono e di vivere un’eterna solitudine.

Romeo Castellucci, la sua Bérénice

Romeo Castellucci, regista e drammaturgo dalle illimitate capacità immaginifiche, riscrive il testo concentrando tutta la tragedia nel personaggio di Bérénice e ponendo ai margini ogni altro personaggio (Tito, Antioco, Fenice e i confidenti dei due uomini). Fa parlare per essi Bérénice che incorpora in sé anche le loro voci sofferenti. Il regista e autore trasforma la principessa di Palestina, che in Racine è algida e amante del potere, la sublima in puro sentimento. Ella è pura e preziosa, come l’oro, uno degli elementi chimici che compongono l’uomo. La proiezione del lungo elenco di quegli elementi sul fondo del palco, a inizio dello spettacolo, precede l’ingresso in scena di Bérénice.

Romeo Castellucci e la sua "Bérénice"
Romeo Castellucci e Isabelle Huppert, foto di Jean Michel Blasco, courtesy LAC Lugano Arte e Cultura
Un testo in versi, in francese

Castellucci, partendo dall’assunto che “l’amore è il Teatro della Crudeltà”, secondo la lezione di Antonine Artaud, elabora un testo nuovo, formalmente simile all’originale – in versi, in lingua francese – ma focalizzato sulla incapacità di Bérénice di darsi una risposta per la triste e malvagia sorte che le tocca. Il monologo di Castellucci trasuda di sofferenza per l’inconcepibile scelta che il suo amato compie. Egli, infatti, preferisce il consenso del popolo e l’osservanza della legge romana all’amore, alla donna amata. Le quinte drappeggiate di tessuto scuro e pesante, che tali restano per molta parte della pièce, sottolineano la circolarità del pensiero di Bérénice e la mancanza di una via d’uscita da quell’oscuro destino che non comprende. Quelle quinte appaiono muri invalicabili che Bérénice non riesce a superare, stretta fra suoni lugubri e atmosfere tetre e nebbiose.

La solitudine di Bérénice

La protagonista è sola sul palco, la sua solitudine è quella di tutta l’umanità. Castellucci riesce a introdurre un termosifone a cui la donna si aggrappa in cerca di consolazione e una lavatrice da cui esce un lungo drappo bianco macchiato di sangue. In un paio di passi il regista lascia intendere, con l’ausilio delle immagini e non del linguaggio, che Bérénice pensi al suicidio. Sappiamo che ciò non accadrà: seppure con fatica, la principessa orientale troverà dentro sé la dignità e la forza per accettare la separazione. Malgrado l’amore folle, Bérénice lascerà Tito al suo nuovo destino.

Castellucci inserisce una lunga scena senza parole nella quale si assiste all’incoronazione di Tito: un busto portato da figuranti su un altare a forma di croce. Tito ha scelto, il popolo lo porta in corteo, ma come fosse crocifisso, il suo non essendo un trionfo interiore. Bèrènice è assente mentre sulla scena si assiste a una danza: due esilissimi performer si muovono in sincrono e la rappresentazione dei due è semantica morale, l’uno bianco l’altro nero, sono il bene e il male, il noto e lo sconosciuto, noi e l’altro.

Isabelle e Bérénice

La Bérénice di Romeo Castellucci è Isabelle Huppert, interprete eccezionale, dotata di un dono speciale: duttilità e adattamento autentici. Isabelle è la donna sofisticata di Quartet, lavoro di Bob Wilson: movenze delicate e artefatte che con lei diventano una danza sinuosa. Si cala perfettamente nella Bérénice di Castellucci e le sue parole rimbombano all’interno del Teatro LAC di Lugano – dove la piéce è andata in scena il 29 e 30 settembre scorsi per poi ridursi a frammenti  dolorosamente espulsi dalle labbra con voce rotta. Castellucci la sceglie perché incarnazione del Teatro, le cuce addosso il ruolo della donna un tempo felice, ferma, delicata ma severa, amorevole e incredula e alla fine disincantata e svuotata. Isabelle si insinua in ogni cellula di Bérénice, fino a sostituire il suo nome a quello di Bérénice.

Il testo che il drammaturgo produce è l’abito perfetto per la Huppert, che incarna la donna fedele, con il cuore incrinato e poi spezzato ma che non manca di ricordare a se stessa che, oltre all’inestimabile sentimento, esiste la propria dignità di persona. Bérénice accetta così la sua sorte, in solitudine.

Bérénice, libera e sola

La scena finale è come una passione, con le parole che a fatica le escono, come rotte e con sillabe sincopate, segno della sua prostrazione fisica e spirituale. Ma Bérénice è pronta a riprendere in mano la propria vita, intende vivere, nonostante lui, e grida alla platea, da donna libera, in una scena dalla quale sono scomparsi i drappi scuri e la parete nebbiosa frontale: “Ne me regarde pas!”. I voyeur siamo noi, il pubblico.

Una versione personale di Bérénice, quella di Castellucci. Dimentichiamo Racine e pensiamo a una donna che soffre molto e la cui sensibilità è diversa da quella maschile, ben rappresentata dalla pantomima dell’incoronazione di Tito nella quale il Senato romano è uno sfondo incolore, un gruppetto di patetici sostenitori dell’Impero.

La Huppert occupa tutta la scena, ipnotizza con la sua recitazione. Ogni oggetto che il regista inserisce, ciascuno con un preciso significato, e anche i bellissimi costumi di Iris Van Herpen, possono persino finire in secondo piano. La presenza della Huppert si insinua anche nei suoni: la sua voce, rielaborata da Scott Gibbons, collaboratore di lunga data di Castellucci, è parte della costruzione sonora dello spettacolo.

La filosofia di Romeo Castellucci è tortuosa, forse non per tutti. Ma l’estetica che riesce a creare non richiede troppe indagini, è poesia che parla da sé.

Bérénice, liberamente ispirato a Bérénice di Jean Racine, di Romeo Castellucci

un monologo con Isabelle Huppert

e con la partecipazione di Cheikh Kébé,,Giovanni Manzo

e la presenza di Oscar Borroni, Gabriele Brunelli, Fabio Casamatta, Dario Ercolani, Tony Iannone, Riccardo Lisi, Igor Mamlenkov, Emanuele Martorana, Daniele Re, Andrea Sala, Daniele Tosini, Davide Troiani

concezione e regia Romeo Castellucci

musica originale Scott Gibbons

costumi Iris Van Herpen

assistenza alla regia Silvano Voltolina

direzione tecnica Eugenio Resta

tecnici di palco Andrei Benchea, Stefano Valandro

tecnico luci Andrea Sanson

tecnico del suono Claudio Tortorici

costumistaChiara Venturini

ideazione trucco e acconciatura Sylvie Cailler, Jocelyne Milazzo

sculture di scena e automazioni Plastikart Studio Amoroso & Zimmermann

produzione Societas, Cesena, Printemps des Comédiens / Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier

in coproduzione con Théâtre de La Ville – Paris, France, Comédie de Genève, Switzerland, Ruhrtriennale, Germany, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, deSingel International Arts Center, Belgium, Festival Temporada Alta, Spain, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Italy, Onassis Culture – Athens, Greece, Triennale Milano, Italy, National Taichung Theater, Taiwan, Holland Festival, Netherlands, LAC Lugano Arte e Cultura, Switzerland, TAP – Théâtre Auditorium de Poitiers, France, La Comédie de Clermont-Ferrand – Scène Nationale, France, Théâtre national de Bretagne – Rennes, France

con il sostegno di Fondation d’entreprise Hermès