Abbiamo Vinto. Vinceremo? Abbiamo “vinto” quello che ci spettava, essendo stati, noi italiani, particolarmente massacrati dal virus. Ora è tempo di speranza. Si deve sempre sperare nel buon Dio. Ad ogni modo, in questa faccenda, non si deve minimamente sperare nel caso, anche perché siamo stati già favoriti dalla buona volontà di mamma Europa o, per dirla diversamente, dalla disponibilità al buon dialogo, equilibrato: questo a te, gente “frugale”; e quest’altro a te e a te. La speranza dobbiamo riporla in noi stessi, e soltanto in noi stessi. Quante chiacchiere sulle condizionalità. Con effetto esclusivamente differitore, unico risultato pratico (per chi ne aveva bisogno). Vuoi l’attivazione del Recovery Fund per l’Italia? Vuoi un sacco di soldi a fondo perduto? Che ne farai? Certo, ti servono per riprenderti e anche per essere presenza tranquilla fra i Paesi membri. Ti offendi se ti chiediamo di dirci come intendi “ricoverarti”? Oppure lo hai inteso in senso italiano, di ricovero in ospedale? Sicché, magari, a dispetto dei soldi di cui disporrai, potresti passare dal reparto medicina interna alla terapia intensiva. E questo, anche con grave disagio per la UE intera, problema più grande rispetto alle eventuali egoistiche e sadiche soddisfazioni di qualcuno, come è accaduto nel caso della Grecia. Questi soldi – peraltro disponibili in tempi non brevi – sono una patata bollente: vorresti trattenerla e nello stesso tempo mollare la presa. I nostri governanti (mediati con ritmi da tour de force dal nostro diplomatico premier) pare si trovino in una situazione di questo tipo.
E mentre si sciorina la rosa, alla maniera del m’ama-non-m’ama, si parla costantemente di futuro: avremo, faremo, ci penseremo. Mai di presente, vale a dire: abbiamo stabilito, ora, di “ricoverare” l’Italia facendo questo e questo e quest’altro, e con questa scansione temporale. Come lo vogliamo investire questo Recovery Fund in Italia? Di pianificazione neanche l’ombra. E non per incapacità, ma per ragioni non dette che costringono il pur dinamico e perspicace Presidente del Consiglio a fare la parte di Fabio Massimo, un Conte temporeggiatore. Se il politico-guerriero romano del III secolo a.C. puntò a stremare Annibale, in Puglia, evitando per lungo tempo di attaccare e di farsi attaccare e così passando alla storia con l’appellativo di “cunctator” (temporeggiatore), il prof. Conte con chi e a causa di chi o che cosa temporeggia? Achille piè veloce nel comporre i dissensi e nel fare stare in piedi compagini claudicanti, ora nel momento in cui occorre prendere penna e carta e scrivere ciò che si vuol fare si è fatto bradicardico. Forse hanno ragione tutti: meglio parlare delle condizionalità che, comunque, altro non sono che opportuno impegno etico, da buon governo. E ci sono sempre state, non solo in questa occasione di Recovery Fund per l’Italia. Anche a proposito di fondi a favore di disastri naturali. Sono stati spesi tutti i soldi, in quei casi? Nient’affatto. E che dire a proposito di fondi per lo sviluppo o per la cultura? Quanti soldi sono tornati al mittente! Di chi è la colpa ufficiale? Della burocrazia. Che nei casi citati, in verità, è stato uno specchio per le allodole. Basta chiedersi: perché quest’indifferenza ai soldi disponibili? Semplice: per interesse verso i soldi disponibili. Disponibili, ma “minati” da condizioni ben circostanziate e da rendicontazione seria.
In ogni caso, la burocrazia entra in gioco, neanche a dirlo. Ma non come corpo che, non volendo caricarsi di colpe involontarie, preferisce frenare. Invece, come corpo che spesso tende a insabbiare a favore dei professionisti della concussione e altro. Poi? Poi le mafie e nomi affini. Se ne parla tutti i giorni. Ma con riferimento alla gente che, al collasso, vede nelle profferte della mafia l’unico ancoraggio. Fatti eclatanti e preoccupanti. Me nello stesso tempo questi fatti, per l’emotività che li circonda, distraggono dalla mai sopita trattativa stato-cosa nostra, ambito nel quale grandi sono l’attesa e il fermento per i miliardi UE. Lo strenuo lavoro del coraggioso Massimo Giletti, per un verso, e, per altro verso, quello di Andrea Purgatori, hanno riacceso l’attenzione sulla famosa “trattativa”, anche perché lo hanno fatto tra storia, presente e futuro. Eh, sì, ci vuole tempo per affrontare, o eludere queste spade di Damocle, ombre che minacciano inevitabilmente anche l’attivazione del Recovery Fund per l’Italia.
Comunque sia, Bruxelles val bene una MES anche se qualcuno potrebbe ricondurre questa parafrasi intorno alla proverbiale espressione di Enrico IV (Parigi val bene una messa) alla retorica del Vaffa dell’ingegnoso Grillo. Come dire: dimmi ciò che vuoi, condizionami come vuoi, tanto poi ti frego lo stesso.
Che fare? Mollare la patata? Impossibile. Nell’Italia iperdemocratica, per di più complicata dalle turbe endemiche ricordate, e dove i misfatti “pubblici” rarissimamente hanno un colpevole, ogni problema risulta di difficile soluzione. Figurarsi la situazione eccezionale che attraversiamo che richiede sguardo corto, vicino e lontano. Una visione completa che permetta di far fruttare il Recovery Fund in Italia. Il rischio di un pastrocchio improduttivo che ci lascerà più poveri c’è tutto. Altro che Villa Pamphili! Ci vuole una mutazione genetica. Né ci si rincuori pensando al senso di responsabilità praticato durante il lockdown. Infatti, quel senso di responsabilità dipendeva dalla gente e dalla paura che l’attanagliava. La gestione della cosa pubblica dipende dai governanti. O arrivano segni capaci di produrre una svolta radicale nella conduzione delle cose, e così si fa la patria, oppure si muore. E Conte potrebbe provarci (o meglio: deve), perché per questioni di tempi e situazioni ingarbugliate non c’è alternativa. Rubens immortalò nella pittura la battaglia d’Ivry nella quale Enrico IV sconfisse la Lega (quella cattolica del 1590 – e non quella di Salvini – che non lo riconosceva re di Francia). Conte deve provare a uscire vincitore dalla sua battaglia d’Ivry e magari avrà poi un suo Rubens che rappresenterà questa erculea impresa. For your interest, per l’interesse della gente, non resta che sperare. O pregare.