Mi è successo di incontrare un’architettura. Da molto tempo non mi capitava; ha risvegliato in me ricordi vivissimi, ma soprattutto ha suscitato un pensiero che ritengo utile esternare, perché frutto dei tempi mutati rispetto a quelli della prima esperienza del genere (avevo esattamente 18 anni e mi trovavo sotto la volta in moto del S. Carlino alle Quattro Fontane, a Roma). Si tratta del tempio costruito a Todi da Bramante: la dimensione, la cura dei particolari, l’audacia del progetto, il rigore nell’esecuzione di un’idea precisa, il successo nell’averla realizzata esattamente nelle forme in cui l’aveva concepita erano evidenti: dentro si svolgeva una cerimonia antica e sentita: la gente che assisteva al matrimonio era vestita a festa, gli oratori (erano tre) la officiavano con convinzione. Mi sono illuso di star vivendo altri tempi, quelli in cui città non designava un’entità caotica fortemente disomogenea, ma era frutto di una civiltà cosciente della propria cultura visiva e della propria missione, in cui tutti erano chiamati a contribuire alla sua costruzione. I tempi in cui fra le varie comunità della penisola si svolgeva un po’ dovunque una gara a produrre le opere migliori: in Italia e non solo nella Toscana di Firenze, Pisa e Siena la rivalità è stata per secoli altamente feconda.
Ma veniamo a noi. Subito dopo la guerra sono stato testimone della svendita ai geometri, ad opera del regime democristiano, del suo incomparabile patrimonio paesistico, quello che aveva retto addirittura sotto quello totalitario precedente. Vado veloce, non sto qui a discutere le circostanze storiche per cui questo è avvenuto, so solo che i sogni del Movimento Moderno si sono infranti in pochi anni e le “Città nuove” inglesi sono state l’ultima illusione a disposizione dei giovani architetti dell’epoca aspiranti urbanisti. Ma ho avuto anche l’avvetura di assistere a un fenomeno ancora più grave innestatosi sul precedente: il turismo di massa. La sana curiosità verso altre culture, con buona pace degli ultimi pionieri attivi in un’arte di matrice soprattutto anglosassone (i vari Fulton, Tremlet e Long), ha mostrato chiaramente i suoi limiti. L’attrazione verso l’ignoto, di romantica memoria, rinfocolata dai vari Conrad e Verne alla ricerca di Passaggi a Nord Ovest, a mio avviso è stata ridicolizzata dalla foga all’evasione purchessia e ha riempito di masse becere col naso in aria dietro imbonitori culturali tutti i luoghi più famosi. La politica, cieca anche sul piano che più le compete, quello dell’economia, è stata costretta all’ultimo minuto a salvare almeno i centri storici, ma i buoi erano ormai scappati. Il turismo di massa la fa da padrone dovunque e comunque, il degrado conseguente è stato velocissimo, inarrestabile. Le prime città a cadere sotto i colpi della “pazza folla” naturalmente sono state le più famose (in Italia prima che altrove; basta pensare a cosa sono diventate Venezia, Firenze, Roma, Palermo ecc), ma a ruota sono seguite un po’ tutte. Per quanto riguarda il patrimonio culturale e paesistico, l’erosione è cominciata dalle coste per penetrare inesorabilmente all’interno, travolgendo un po’ tutto. Il disastro è sotto gli occhi di chiunque non abbia subìto una trasformazione antropologica, è incontestabile.
Ma finiamola con queste lamentele da vecchio nostalgico e occupiamoci, se possibile ancora una volta, di architettura partendo dal monumento citato. Ero reduce da un viaggio di lavoro nel nord del Portogallo (a Cerveira, ai confini con la Spagna) e sotto l’impressione positiva di trovarmi in un paese in cui si poteva ancora parlare di quel mestiere perché praticato un po’ dovunque, con correttezza oltre che in qualche punto con autentica passione. Accenno almeno all’impressione positiva che ho avuto da spostamenti in macchina, ma anche a piedi, nel tessuto urbano di alcuni piccoli centri e di una grande città: assenza o per lo meno misura nell’uso dei cartelli pubblicitari, quasi nessun abuso visivo vistoso, pochissimi gli stupri graffitari, cura dei particolari urbani, che so per esempio nei box di attesa degli autobus, nella cantieristica stradale mai caotica o ingombrante, nella distribuzione dei cassonetti della spazzatura, nella mancanza di sporcizia per le strade (non ho visto cicche di sigarette o quanto meno cartacce in giro, ecc).
La visita al grande Museo di Porto (il Serralves), con la sezione dedicata all’opera di Alvaro Siza, ha aperto le mie speranze: allora è ancora possibile, allora non tutto è perduto, l’architettura non è morta. Il flusso turistico cantabrico dal ponte che unisce Cerveira con la Spagna invade questo piccolo centro rimasto intatto, con la sua fiera affollatissima in cui puoi trovare ancora una giostra per bambini costruita tutta in legno e mossa dalle robuste gambe d’un volonteroso pedalatore, ma senza sconvolgerlo, senza stuprarlo, come invece è avvenuto da noi dovunque.
L’amarezza per il confronto sfavorevole col mio paese ha fatto posto a una constatazione evidente: l’esempio di due grandi architetti che vivono e operano un po’ in tutto il territorio nazionale (oltre a quello nominato anche Eduardo Souto de Moura) evidentemente ha dato i suoi frutti, almeno in quella parte in cui ho fatto la mia esperienza recente (circa vent’anni fa ero stato a Lisbona e avevo avuto la medesima impressione). Evidentemente la politica post rivoluzionaria in quel paese è stata lungimirante, perché ha investito positivamente risorse nel bene comune: il territorio. Ho tirato un sospiro di sollievo, ma torniamo a Todi.
Un salto nel passato reso significativo dalla precedente esperienza: la città, al contrario di quelle più famose della stessa regione, è ancora intatta dal turismo di massa, è ancora “paese”, e il tempio del Bramante non è isolato dal contesto territoriale. Ho pensato a Città
di Castello, feudo del grande Burri, a Montepulciano, dove un altro esempio purissimo rende evidente che l’utopia del Rinascimento non era un fenomeno isolato. Il Cupolone brunelleschiano, l’audacia del quale supera tutti gli esempi, può essere pure invaso oggi dai giapponesi, ma tutto non è perduto: c’è un’altra Italia che resiste alle ultime invasioni barbariche. Naturalmente la mia esperienza, comunque di lavoro, non è completa, ma facendo tesoro di escursioni avvenute in tempi precedenti in altri luoghi del Centro toscano, umbro, marchigiano e laziale, ha rinfocolato le mie speranze.
La parola resistenza non è astratta e deriva, forse un po’ utopisticamente, anche da un’esperienza altamente positiva fatta a contatto con chi come me crede alla possibilità di salvare qualcosa. Si tratta dell’opera intelligente del figlio d’un famoso artista dell’arte povera che, scegliendo di vivere il territorio scelto dal padre in tempi più felici, continua l’opera del genitore sfruttando la ricchezza agricola e culturale del territorio. Si tratta solo di un esempio, ma non isolato: una certa tendenza al “ritorno” si constata un pò dovunque, soprattutto nelle zone interne, ma quello di Matteo Boetti è particolarmente significativo (sposa l’attività di gallerista poeta con quella di agricoltore a tempo pieno). Per inciso, contraddittoriamente alla denuncia dell’abbandono dell’Appennino Centro Meridionale evidente in opere come Nevica, ne ho le prove, ma soprattutto Terracarne, anche quella letteraria di Franco Arminio fa sperare che quel triste fenomeno non sia irreversibile. In conclusione: voglio essere ottimista.
Ma è possibile una conclusione per un argomento così vasto, un tema che per essere affrontato adeguatamente avrebbe bisogno di uno spazio ben più vasto di quanto è consentito in un foglio di rivista on line come questo? Sarò sintetico al massimo, sperando che la malignità, merce corrente fra gli intellettuali, lasci da parte i suoi soliti trucchetti e che una certa benevolenza per l’insufficienza necessaria al foglio dia una mano a comprendere la sintesi.
- L’architettura non è solo il prodotto di archistar più o meno valide (che so, Siza piuttosto che Ghery, Souto de Moura piuttosto che Pergolesi), ma lo è anche. Certi mastodontici studi professionali (quello di Piano ne è un esempio) sono composti da gente con le palle, perfettamente cosciente che, per esempio, l’immensa copertura del padiglione portoghese dell’expo ’98 di Lisbona, realizzato dal primo dei nominati in un paese fortemente a rischio terremoto, sono frutto, più che della fantasia del capo (pochi privilegiati si sono conquistati il diritto allo schizzo geniale), del lavoro di una troupe di ingegneri che ha fatto la sua parte per mesi, forse per anni: la parola sinergia non è astratta.
- La funzione dell’archistar non è solo quella di produrre edifici o manufatti edili, ma nella società in cui opera di dare l’esempio di rigore costruttivo. Solo così produrrà i suoi frutti capillari, nel senso che facciano da guida per altri.
- L’archistar non può niente senza un tessuto politico che accolga favorevolmente il suo pensiero, il pensiero del gruppo che dirige e quello che ho cercato di riassumere nella parola “città”: il tempio bramantesco non è nulla senza il palazzo del popolo, senza una piazza in cui inserirsi, senza il tessuto occupato dai vari Matteo, magari venuti d’oltralpe.
- L’architettura è prima di tutto l’arte della disposizione degli spazi occupati dalle varie funzioni: il mestiere più difficile e più importante, perché cura la vita nei suoi aspetti essenziali, mangiare, dormire al coperto; in una parola proteggere la stanzialità. Oggi (lo dico con cognizione di causa e con l’amarezza di aver perduto per sempre una bottega) c’è molto più bisogno di architetti interessati alla vita quotidiana della gente comune che di archistar di grandi strutture.
- Ma soprattutto poi l’architettura è cura del particolare. Una progettazione, nel senso più vasto del termine, che coinvolga chi la abita quotidianamente, che so, nella scelta (operata da Paola, Isetta o chi per lei) della pianta grassa sul tavolo da pranzo, nell’accettazione, anzi nella selezione cosciente della ruggine della seggiola da giardino che mi trovo sotto il culo, nel rispetto dell’enorme gelso che minaccia con le sue radici addirittura la casa, nel caos ordinato di un gusto che rispetta l’antico come il tappeto nuovo, magari venuto dall’Afganistan, nel gradino memoria.
- Infatti l’architettura è sostanzialmente memoria e mi vengono in mente le parole di un mio maestro di sessant’anni fa (Ludovico Quaroni): la città non può vivere senza.