Una grande accuratissima personale visitabile, a Milano, fino al 23 settembre
La svolta del contemporaneo nasce grazie all’intuizione, all’evento epocale di Marcel Duchamp, l’objet trouvé installato nel museo, nel luogo deputato dell’arte. Dobbiamo riconoscere alla res derelicta, abbandonata, svuotata di funzione, destituita apparentemente di significato, il sorgere della questione non tanto sul canone, sull’ordine della bellezza, ma più radicalmente sul senso, sullo status ontologico e sulla condizione di possibilità dell’opera d’arte. Le opere di Pino Pascali si installano non solo in un luogo decontestualizzato, ma piuttosto in una domanda, ambiscono a frequentare non solo la scia delle intuizioni del dadaismo, ma piuttosto le turbolenze, i vuoti d’aria di chi accoglie la vertigine della gravità zero dell’arte come effetto decisivo determinato dell’ingresso del ready made sul palcoscenico dell’arte.
Pascali decolla artisticamente, nel suo “riuscito tentativo di volo” alla De Dominicis, si appropria dello stilema dell’objet trouvé, per poi de-costruirlo generando o meglio ri-generando un simulacro. Un’operazione concettuale-concreta dove l’oggetto de-localizzato diventa un fantasma, un prodotto illusorio, non più il raccolto di una discarica degli oggetti perduti ed obsoleti, ma la riproduzione fedele di un miniaturista, una maquette da modellismo a grandezza reale, in scala 1:1. L’effetto è ancora più straniante che in Duchamp e nell’assemblage neo dada: Pino Pascali crea intenzionalmente una dissonanza cognitiva nello spettatore attivando una macchina artificiale di suggestioni. L’effetto consiste nel creare un effetto di straniamento come teorizzato da Bertolt Brecht che conduce lo spettatore a superare una lettura in superficie delle cose e disporsi a una lettura critica dell’opera.
Parafrasando Le Corbusier una “machine à penser” o meglio a “de-penser”. La precisione maniacale del dettaglio, la fedeltà all’accurata ricostruzione filologica di modelli in scala, si dispone in un gioco di allusioni, una mappa del disagio del significante che confonde e affonda nel profondo della svolta del contemporaneo. Pino Pascali si impone sulla soglia di una crisi linguistica. Una ricerca plastica di frontiera che avvale dei trucchi della scenotecnica ma non si riduce all’assemblage post-moderno da trovaroba teatrale, si avvale di colpi di scena inaspettati agiti da una sorta di “deus ex machina” della scultura. Si tratta di attraversare territori di confine, calpestare campi minati, alludendo ad azioni fuori campo visivo.
Quella di Pascali è una scrittura visiva per sintomi, ricca di improvvise condensazioni di senso e polisemico. Anche la percezione diventa un atto implicitamente politico oltre qualsiasi dichiarazione. L’arte assume lo status di una contro-realtà, di formalizzazione di un impulso creativo a partire dai materiali concreti che l’artista assume, modella, assembla e unisce per presentarci una contro-forma, una eccentrica contro-informazione che attraversa il disordine della contaminazione tra diversi registri linguistici. L’immaginario pubblicitario degli anni pionieristici, delle grandi narrazioni ad opera di art-director leggendari degli anni sessanta come Armando Testa, una specie di “aria di famiglia”, un tono di fondo, un codice di stilizzazione iconica molto prossimo alle operazioni di sintesi concettuale che Pino Pascali impiega nella scultura e nelle installazioni.
Opere illusoriamente concrete, prelievi di oggetti che sono meticolose riproduzioni iper-realistiche di armi. La lungimiranza di Pascali è dotata di un mirino di alta precisione per centrare il bersaglio meta-comunicativo, per destabilizzare una lettura solo oggettuale ovvero esclusivamente contestuale. Dal “Bellum omnium contra omnes” di Thomas Hobbes, alla sintesi plastica di un fucile mitragliatore, un Parabellum, una intera riserva di armi “caricate a salve” non garantisce salvezza. Anche armi improprie, sono sempre in grado di colpire concettualmente. Armi metafisiche dotate di una sorta di iper-realtà, di un surplus di potenza iconica. Anche l’arte è un’arma priva di sicura.
Stanley Kubrick, nel suo anarchismo indefinibile, nella rarefazione assoluta di dichiarazioni concernenti la politica, si dichiarerà sempre tenace convinto antimilitarista, pensiamo a “Orizzonti di Gloria”, al “Dottor Stranamore” con quella bomba così grottesca simile all’opera di Pascali, ma anche la guerra metafisica di “Full Metal Jacket”. Le armi possiedono una potenza simbolica cosi stagliata da essere pericolose anche se scariche. Si ricorda negli anni settanta un celebre caso di una tragica burla dove fingendosi armato un noto personaggio fu freddato dalla reazione per legittima difesa. Anche un’arma giocattolo è un’arma. Il detonatore semiotico innescato da Pascoli mostra una forza rivelatrice riconducibile alla dottrina Aristotelica delle quattro cause: “Causa formale”, “Causa materiale”, “Causa efficiente”, “Causa finale”. I ready-made di Pascali sono confezionati con una qualità di riproduzione meticolosa, maniacale, quasi miniaturistica. Anticipano anche esecutivamente le riproduzioni di molta scultura contemporanea, quasi un mimetismo in tuta mimetica. Dunque non tanto objet trouvé, non un oggetto ritrovato quanto un oggetto simulato, capace di agire secondo una pragmatica linguistica, un atto linguistico capace di agire fantasmaticamente ma pure efficacemente nell’ordine del reale. Non esiste guerra simulata, la grande illusione di una deterrenza dell’arma è un falso: l’arma è sempre offensiva, la sua presenza evoca giochi, non solo linguistici, di morte.
“Dillinger è morto” è un caustico film di Marco Ferreri dove la scoperta di un’arma innesca un delitto perfetto: quello senza movente, il casuale rinvenimento di una pistola induce il protagonista all’uxoricidio e alla fuga. C’è una singolare assonanza tra l’ethos anarchico e le atmosfere psicologiche di questa pellicola e le sculture a forma di armi realizzate da Pino Pascali. La conformazione dell’arma, l’impugnatura dell’arma la sua perfetta ergonomia tattile, la sua forma fatale a condurre il gioco di morte, la dinamica preterintenzionale che muove dal puro gioco mentale alla morte immotivata. Una macabra ironia che in fondo è frutto di una commistione tra provocazione pulsionale, automatismo behaviorista, eterogenesi dei fini, e coazione a ripetere, come istinto di morte freudiano, per arrivare a premere il grilletto quasi telecomandati di ascendenza surreale e dadaista insieme. Anche William Burroughs mostra una frequentazione insistente, sia ossessione esistenziale culminata in tragedia personale paradossale, che come immaginario paranoide, una predilezione e insieme una maledizione connessa alle armi come strumenti investiti di una ambivalenza etica e psicoanalitica.
L’eredità delle avanguardie storiche si innesta in una competenza scenografica sperimentata nella televisione, nel cinema, nella capacità sintetica e nella retorica folgorante del mondo pubblicitario. Queste ascendenze trovano nella breve vita di Pino Pascali una bruciante carriera, una escalation visionaria velocissima, quasi per consapevolezza della propria tragica sorte incombente. Una renovatio della pratica plastica che ha aperto vie che ancora oggi sanno ispirare il mainstream della scultura contemporanea facendone un indiscutibile maestro allo stato nascente. La sintesi plastica, ma anche l’enigmatica e sistematica ambiguità di un corpus di opere non motivate da una poetica rigida o ideologica, ma dense di evidenza concettuale e formale rendono Pascali una fonte inesauribile di ispirazione. Magistrale nel tradurre nel visivo sofisticati e irresistibili calembour concettuali, quasi un Ennio Flaiano della scultura grazie alla qualità fulminante, alla brevità senza scampo dei suoi aforismi plastici senza scampo.
L’artista tesse la tela di un ragno, un apparato di cattura dell’attenzione, una trappola per il senso comune, al quale l’intelligenza non può sottrarsi, come anche il serioso atteggiamento da poseur di molta avanguardia e soprattutto di neo-avanguardia che non può che lasciarsi catturare nelle maglie invisibili di opere paradossali subendo il veleno letale della vera intelligenza.
Frequentando la scenotecnica, Pino Pascali viene introdotto a quello spazio metafisico per eccellenza, quel doppio di mondo, un gioco postmoderno di commissione tra scena quinte e fluori scena, una architettura a-funzionale ipnotica e surreale. Una ricerca meticolosa nella radura post-industriale disseminata di oggetti destituiti di funzione, solitari, appassiti e melanconici, sfondati, inceppati nella propria incoscienza, perché solo nell’imperfezione allusiva e nell’anacronismo si tradisce l’autentica qualità esistenziale degli oggetti perduti, rivitalizzata dall’immaginazione poetica. L’artista sa dirottare i materiali dalla destinazione naturale alla produzione della propria immaginazione mantenendo una visione non individualistica e idiomatica ma alleandosi con un immaginario collettivo, archetipico, semplificato fino all’essenza universale favorendo una contemplazione socializzata e pubblica dell’arte.
Il riciclaggio di componenti industriali attraverso assemblaggi che ne riqualificano il senso in chiave poetica, mentre la superficie non rimane texture decorativa ma diventa una interfaccia, un oggetto tradizionale, un campo di scambi simbolici, di mediazioni linguistiche. La forma diventa architettura psichica, vettore di tropi linguistici. È la forma portante, non la costituzione materiale, il movimento del suo disegno strutturale, a rendere possibile il volo pindarico ad aprire una catena di analogie, lasciando agire la metafora, ad abilitare un modo poetico di abitare il significato. La disobbedienza, l’insofferenza al luogo comune rappresenta una costante sfida alle istanze di una pratica artistica calligrafica. Nelle pieghe del fraintendimento e tra le contraddizioni, le costellazioni surreali della creazione dove l’arte circola mobile, indecisa se sfuggire alla dittatura del significato per entrare nel puro orizzonte della divagazione. Si intuisce che tutto è davvero possibile, ma occorre accettare le conseguenze di questa libertà. L’arte di celare l’arte, lo spirito ironico e ludico e la poetica leggerezza rivelano l’impensato confezionato dentro il sogno plastificato, per vendicare la verità con pallottole di pura poesia esplosiva.
Pino Pascali è un enfant terrible rimasto per sempre enfant prodige acuto e inventivo. Il suo lavoro artistico rivela quanto l’intelligenza sia un dono non muscolare, ma fondato sulla concentrazione inesauribile della precisione chirurgica di impiegare il rasoio di Occam per forgiare nel modo più accurato e nitido le forme in grado di rappresentare paradossi concettuali. Pino Pascali dispone di un detonatore politico per praticare una guerriglia in grado di colpire al cuore la noia del consolatorio e dilagante rituale delle languide consacrazioni dell’estetico, si serve di materiali ricercatamente impoetici per frequentare le strade impervie dell’immaginazione che accede ai lati più respingenti, più intransitivi e opachi del presente. Nei materiali poveri, sintetici, industriali, oggi vintage, quasi fossili di archeologia industriale, Pascali sa cogliere in tempo reale, lo Zeitgeist, lo spirito del Tempo incarnato nella materia significante. Il Presente, il modo temporale, tempo più di tutti fenomenologicamente sfuggente, lo sguardo critico sul presente è ineguagliabilmente colto, come pochi artisti della sua generazione, dalla sensibilità rabdomantica di Pino Pascali.
C’è la consapevolezza di scrivere per interruzioni, per frammentazioni, per connessioni rapsodiche, capace di tra-dire, di lasciare accadere uno scarto, Una mappatura impossibile, come una carta nautica infedele, inadatta alla quadratura del cerchio, impossibilitata a contenere l’infinità dell’Oceano. Eracliteo, inarrestabile, irrappresentabile, come il grande fiume irripetibile del reale.
La fotografia di scena, dato che per certi aspetti più che di performance si può parlare di teatro-fotografato, è per Pino Pascali un’ulteriore straordinaria forma espressiva, di azione, di rappresentazione e di gioco, capace di generare un sofisticato sistema di rimandi e detour, errando tra le opere e l’artista-attore. Un volto significante, un corpo narrante, interprete autentico capace sempre e comunque di depistare. Fotografie di magistrale impatto iconico-attoriale, un mimetico agghindarsi per smentirsi, indossare le vesti di artista-filosofo teatrale sempre irriverente, istrionico, sfuggente. Ogni volta un racconto visivo inatteso, una nuova storia dalla verifica incerta: come narrazione, come evento, come opera d’arte.