Chi ha dimenticato l’epopea di due eroi finiti del film di Paolo Sorrentino “L’uomo in più” del 2001 e passa il tempo a tacciare di fellinismo il regista, si dovrà mettere l’anima in pace se e quando vedrà “E’ stata la mano di Dio”, film autobiografico del regista napoletano, nelle sale dal prossimo 24 novembre. Così chi taccia il nostro di barocchismo eccessivo.
Sorrentino ha realizzato un film intimo senza intimismo, ed è riuscito laddove molto cinema nostrano non riesce: a trasformare un ritratto di famiglia in un interno, non in un tinello senza uscita, ma in una piazza d’armi. La vocazione a narrare antiche tragedie non abbandona il regista.
L’impossibilità di dare sepoltura alla famiglia
Qui si tratta del passaggio all’età adulta di un giovane impedito – come Antigone – a dare alla famiglia degna sepoltura. Paolo Sorrentino non teme di apparire romantico, e lo è, per buona pace di chi intende il romanticismo come sentimentalismo per donnette. La storia è quella di un ragazzo che per entrare nell’età adulta non vede altra via che il cinema, fuga catartica per sopportare una realtà violenta, quella del lutto non elaborato. Romantico perché in un dialogo fra il giovane protagonista Filippo Scotti/Sorrentino e il regista, il secondo scuote il primo dal torpore adolescenziale gridandogli addosso che senza un dolore (non “senza dolore”, ma “senza un dolore”) non si ha nulla da dire.
Il mare di Paolo Sorrentino alla Friedrich
Il dialogo (il regista è interpretato da un durissimo Ciro Capano) si svolge di fronte a un mare napoletano che ricorda quelli taumaturgici dei quadri di Caspar David Friedrich, come in “Il viandante sul mare di nebbia” del 1818 e “Il tramonto” del 1830-35.
Un manifesto fuori moda nell’era della fluidità emotiva. Un dolore lo hanno i personaggi più importanti del film, come la zia, ruolo assunto da una smagliante Luisa Ranieri, che interpreta appunto con complessità (al pari di Sabrina Ferilli ne “La grande Bellezza”) la zia pazzerella, un personaggio che ricorda quello altrettanto fondamentale nel plasmare la personalità artistica di un giovane Gerhard Richter nel film “Opera senza autore” di Florian Henckel von Donnersmarck del 2018. Evidentemente non c’è famiglia che si rispetti senza una zia fuori dalle righe che viene ridotta al silenzio da una società che mal sopporta chi ha un animo artistico senza essere artista.
Toni Servillo non recita solamente se stesso
Toni Servillo interpreta il padre del giovane protagonista e finalmente non recita solamente se stesso, benché la sua tendenza a compiacersi del proprio sorriso non scemi neppure in un film che ci restituisce la misura tenuta dall’attore ne “L’uomo in più” e ne “Le conseguenze dell’amore”, del 2004. Ma sono i restanti attori a sfondare lo schermo: le facce sono una prerogativa di Sorrentino, e la sua ricerca accurata del cast viene essa stessa citata nell’affettuoso ricordo del giovane mentre spia un improbabile provino del fratello per un film di Fellini.
Protagonista il mare
Il mare è il grande protagonista di questo lavoro, come lo fu ne “L’uomo in più”. In entrambi i film i tuffi sono liberatori e forieri di avvenire, e marcano l’abisso fra l’aristocratica e borbonica Napoli con vocazione cosmopolita e la papal-umbertina Roma con la sua magnificenza statica e flaccida. Eppure sarà Roma che il giovane protagonista sceglierà per risorgere dalle ceneri di una tragedia tanto più feroce quanto meno annunciata. Difatti, fino all’incidente nel quale muoiono i genitori, il film racconta con ironia e umorismo (una novità nel cinema di Sorrentino) un clan familiare eclatante per gioia, irridente goliardia, affetti e dispetti, e che sarà per il protagonista una rete di sicurezza sentimentale.
Napoli senza cinismo
Un clan che diventa quello dell’intera palazzina, dove regna incontrastata la baronessa-nave scuola del nostro, interpretata da una magnifica Betti Pedrazzi la cui maestosità anti-celebrativa sembra un vessillo dell’attitudine allo smascherare vizi senza virtù dello spirito napoletano. Spirito lontano dal cinismo della Roma di Sorrentino, un cinismo da cui l’autore (Sorrentino è regista e sceneggiatore) sembra essersi liberato con leggerezza planando su paesaggi solari, soleggiati e mai solitari.
Il Maradona di Paolo Sorrentino
Basti comparare l’icona di Maradona in due film sorrentiniani: qui è dipinto come un giovane guappo con la vita davanti, che salverà la vita al protagonista, antitetico, al Maradona-Kurtz di “Youth”, un Prometeo caduto miseramente in una vasca di piscina, senza onori e con il solo onere dell’oblio collettivo. Viene in mente un altro regista che ha inteso raccontare il nostro paese: Nanni Moretti che ci ha consegnato film autobiografici. Nel suo film “Bianca” il Michele monteverdino era affetto da oblomovismo musiliano, e la sua problematica era quella della partecipazione o meno alla vita, ad un mondo di cui si ostinava a restare spettatore.
In sottofondo il contrasto Roma-Napoli
La Roma che immobilizza e punisce qualsiasi buona intenzione contrasta, benché assente nel film di Sorrentino, con una Napoli che attacca i suoi figli non per sbranarli come Chronos, ma per buttarli a mare. Un mare calmo, dove il solo rumore è quello dei motoscafi offshore sognati da uno dei personaggi più poetici del film: il contrabbandiere Armando, interpretato da Biagio Manna con efficacia, rumore a cui con discrezione ed eleganza Sorrentino dedica gli ultimi minuti dei titoli di coda.
Un film per i nostri figli
Questo film, a differenza dei precedenti, non ci lascia spettatori di un’umanità paradossale e parossistica deviata dal malaffare e sofferta da eroi mancati. Questo film ci riporta alla nostra propria gioventù quando, leggendo Dickens o Dumas, non riuscivamo a fare a meno di prendere le parti del protagonista, con una spontaneità che solo un’infanzia avventurosa ha concesso a molte generazioni. In questo senso questo film è un film per i nostri figli, affinché sappiano che il passaggio all’età adulta non è esente dal dolore, ma neppure dalla fede accanita nei propri sogni.
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