Uccidiamoci – visto che non è altro che un gioco.
Emily Dickinson
A ogni morte come alla propria morte.
Simone Weil
“Si incamminava per il mondo seducendo uomini e donne.
Senza trucco di mattino sembrava un ragazzo, indifeso, tenero, smarrito. Poi si preparava per la danza rituale della caccia: una lunga cerimonia di vestizione, trucco e tatuaggio.
Di colpo appariva una divinità guerriera, adulta, bellissima. Di strana bellezza carnivora. Sembrava imbattibile perché era impossibile decidere cosa combattere: la forza diretta di un guerriero o quella, più ambigua e sconcertante, di un’amazzone. L’irrecuperabile enigma. Quello di Giano Bifronte, dell’Ermafrodite, della Dualità: eterno Iside/Osiris. Non aveva bisogno dell’intelligenza. Per questo seduceva i semplici e gli eletti. La contesa intellettuale, la celava dentro di sé: dialogica bifronte verità, conturbante concetto della non-verità, inaccessibile ai più. L’ignara non-verità, che è il segreto di questa verità che ora ci sta dinnanzi. E noi – bramosi del segreto.
Il suo talento di dipintore non era conscio della non-verità: virile forza di un imbianchino e femminile esuberanza dell’instancabile decorazione. Non è stranezza grandiosa. Non è nemmeno una stranezza. È l’oscuro oggetto del desiderio di tutti. È il puro e l’impuro di Colette. È quello che ogni uomo vorrebbe avere: docile e femminile polpa di un mollusco indifeso. È quel che ogni donna vorrebbe sentire nell’essere sedotta: misteriosa e delicata mano decisionale leggermente/o piuttosto ambiguamente violenta. In ogni caso – il mistero. Aletheia[1] e Tipate[2]. Tutte la/lo volevano. Attorno alla sottile figura di atleta/ballerino aleggiava un’aria di mitico tormento. E il suo volto rispecchiava questo tormento. Non sorrideva mai, o di rado. O così sembrava. Era il tormento di un amore-mai-appagato. O appagato così tante volte da perdere i contorni dell’appagamento.
Ecco. E il tormento stabiliva la legge della bellezza bisessuale di questo drammatico volto. Volto di un artista.
Non diceva forse Parmenide: Facendo esperienza completa di tutte le cose è necessario che le apparenze siano vagliate.
Tutto questo scrissi dopo. Ma ecco che anni prima era venuta a trovarmi una giovane. Era una straniera, in ogni senso. Il perché lo compresi dopo, appunto. La ragazza era triste, depressa, il suo volto sembrava in certi momenti quello di un ragazzo, capelli lisci corti. Mi ricordava l’ambigua e brava Julie Andrews del film Victor Victoria di Blake Edwards che vidi più volte, e ogni volta era misterioso. Nipote di miei amici di Dobříš, uno scittore ceco sposato a una musicista lituana, stava per lasciare l’Italia dopo una lunga vacanza. Restò mia ospite per un mese. Per un mese i suoi occhi grandi con una fiammella intensa mi seguirono o piuttosto m’inseguirono. Penetrava i miei occhi con ferocia. Si può fare lingua in bocca con gli occhi? Di giorno si organizzava per dipingere. Tele, colori, carte, colle, lacche, smalti, diluenti, inchiostri, pennelli, matite, nuvole d’oro zecchino. Amava l’oro. Bisanzio si celava in fondo ai suoi occhi, enigmatico e lontano. Dipingeva per terra, piegata come un manichino di legno dinoccolato. Srotolava e arrotolava immense tele con piante di città immaginarie. Molto oro e molte figure di donne, allungate in un inarrestabile processo da Cranah a Giacometti. Senza volto o piuttosto con un volto da metafisico manichino di De Chirico. Bruciavano la tela i loro sguardi, un solo occhio visibile, ciclope al femminile.
Usciva raramente. Di solito per acquistare alti stivali con le stringhe, da ufficiale di qualche corpo speciale delle sue città cosmodromiche. Oppure tornava con degli abiti attillati che la trasformavano in un’irresistibile seduttrice da podium dell’alta moda.
Il rito della seduzione si svolgerà per tutto il mese di novembre. Fu allora che scrissi la mia più lapidare poesia, non in tre versi ma in tre parole Novembre fu breve tradotta poi in musica da R., compositore fiorentino.
Bertilla si chiamava. Una nonna era cattolica. Scelse il nome di una santa degli anni venti. S. Maria Bertilla Boscardin era del Nord Italia, una zotica veneta che venne per servire e non per essere servita. Parole avvolte nel cupo segreto del pensiero religioso come altre ancora del Vangelo che ascoltiamo spesso celando il turbamento se non l’imbarazzo. Colui che vorrà diventare grande fra voi si farà vostro servo, e colui che vorrà diventare il primo tra voi si farà vostro schiavo. Non era questa la chiave del geniale Von Trier per leggere la scacchiera o piuttosto camera di tortura nel suo film Dogville?
Il nome Maria Bertilla, dapprima di un’antica e nobile badessa, al tempo dei Franchi, fu ricevuto dalla santa alla sua entrata in convento. Addosso a lei, perfino quel nome solenne sembrava umile e inelegante. Non ho mai capito se nelle grandi sante prevale la passione o la crudeltà. Sottile crudeltà del sado-masochismo ad oltranza.
E poi non so quanto un nome influenza il destino. Forse avevano ragione i russi, Florenskij, Losev: l’uomo non possiede la parola come un tesoro ma la trova come un dono, in seguito a un processo di nominazione da cui il valore magico della parola. E qui si ricollegano con Humboldt: l’uomo è divinamente libero nella sua creatività linguistica. Nella lingua tutto vive, tutto scorre, un’inarrestabile attività tradotta in energia. E questa oscura energia, masochista e vitale, Bertilla conferiva al suo strano rarissimo nome.
Di certo non era una santa.
Si faceva sempre più bella e attraente. Cominciavo a essere turbata. Avrei potuto essere sua madre. Senz’altro le ero maestro. E ora che fare? Di notte mi venivano strani pensieri. I ricordi di poche e vaghe, impalpabili storie di quando ero ragazzina: quel turbamento dovuto alle presenze femminili si era impresso nella memoria.
Ho sempre amato la bellezza femminile. Diceva Piero Fornasetti che in casa mia a Milano si incontravano le più belle donne della città. E come potrebbe essere diversamente: sono una vera figlia d’arte. Mio padre quasi novantenne è sempre circondato da giovani bellezze. Sono loro ad innamorarsi. E lui a restarne affascinato.
Inquieta, di notte passavo in rassegna la nebulosa delle memorie cancellate. Accadde a Odessa. Avevo forse tredici anni.Una ragazza rude, popolana mi accompagnava a casa assumendosi il peso della mia cartella e picchiandosi con i ragazzi che ci importunavano. Alquanto inusitato…Ero robusta e sapevo difendermi. Forse la mia TBC era la ragione di tale premure. Ma tutto finiva lì.
Nel cortile d’estate, sempre a Odessa, nelle sere calde succedeva qualcosa tra me e Nelly. Avevo 9 anni, lei due-tre di più. Il suo monte di Venere era glabro e un po’ abbronzato. Era l’unica cosa che mi è rimasta in mente. Il pudore cancellò ogni dettaglio nella memoria furbastra e benpensante. Risparmiò gli odori di erbe secche della steppa e di salmastro marino, mescolati agli odori femminili estivi, privi ancora di quello del flusso mensile, così speciale e indescrivibile.
E ancora prima, a quattro-cinque anni a Ufà in Bashkiria, in una rimessa sopra una discesa verso il fiume Belaja in piena. Le casupole nell’acqua per metà come goffi battelli ancorati tra gli alberi cresciuti nell’acqua bianca specchio che raddoppiava il paesaggio. Si raccontava che erano le case degli zingari, riparavano nei carri tra i campi durante le inondazioni… Bambini e bambine delle baracche degli sfollati si incontravano qui per mimare i gesti d’amplesso dei grandi. A due, a turno entravano nel buio della rimessa abbandonata, altri montavano di guardia. Quell’amplesso immaginario aveva un nome: pichat’sja, spingersi. Procurava dolcissimo ed emozionale senso di colpa. Nient’altro. Quanto bastava. Le bimbe erano in numero maggiore. Quindi alcune coppie erano al femminile. Non ho mai sentito parlare di esperienze simili.
Più avanti negli anni, in Italia, sento la voce di un’amica, decisa e affascinante creatura: Sei o non sei la mia fidanzata? Perché non vuoi “ciulare”? Eravamo nel dopo sessantotto. Come dopo la guerra. Tutto era sotto sopra. Anche le parole. In ogni modo si usava così. Io – sempre distratta. Un’altra amica, anche lei un’artista, meno decisa ma altrettanto affascinante, corsi in bagno a vomitare: avevo messo un profumo troppo intenso, e non finivo mai. Con lo scemare dello spirito sessantottino l’approssimazione era finita. E non avevo mai avuto una storia vera all’insegna dei nuovi costumi.
Rimase da allora una certa libertà di linguaggio. Da una lettera recente di una studiosa da Londra:… una breve esperienza con la poetessa che tu conosci. Tutto qui. E non potrei scriverne, è troppo presto. Tu non mi avevi sedotta durante il mio soggiorno milanese nella tua splendida casa. Lei sì, mentre era ospite mia a Londra con il marito dietro la parete.
Oppure da una lettera da Parigi di un giovane amico, scrittore e satiro:.A volte mi sento l’uomo più lesbico del mondo. Tutto era cominciato anni fa quando all’università lasciai Miriam e le confessai di averla tradita con la sua migliore amica greca e lei per tutta risposta mi disse che anche lei mi aveva tradito…con quella stessa amica. Per il resto è tutto un susseguirsi di ragazze che vorrebbero, di ragazze che ogni tanto lo fanno, di ragazze che lo fanno perché è alla moda (fra le più giovani), di ragazze che lo fanno con altre ragazze per farmi piacere e per farmi eccitare (una mia ex, una russa pazza fotografa conosciuta a Parigi, durante una festa un po’ su di giri fece veramente di tutto di più con tutte le donne presenti, e poi la sera dopo per sedurmi disse che l’aveva fatto solo per impressionarmi, e ci era riuscita). Vabbe’ insomma non sto a insistere.
Non credo che negli archivi dei miei nonni o genitori si trovino lettere simili. Eppure, erano artisti e davano scandalo. È cambiato lo stesso concetto di scandalo. Scrissi un poema tragicomico che si intitola DENTI. Subito mi arriva una mail da Mosca:
Un’adepta sessantottenne del M.D.M.[3]di Bangkok è stata la prima donna a raggiungere l’orgasmo mentre il suo dentista le trapanava un dente, scrive negli anni Ottanta Harry Mathews in “Singular Pleasures”, ex marito della scultrice Niki de Saint Phalle poi della scrittrice Maie Chaix, un gelido e amministrativo prontuario della masturbazione all’insegna della geografia.
Ora con Bertilla non sapevo cosa pensare. E finalmente smisi di pensare. Ero sola, uscita da un matrimonio di violenze: tentativi di omicidi/suicidi, volto fracassato, interni distrutti. Ora – solamente l’oggetto di una corte conturbante, di una passione furibonda. Scivolavo in questa felice palude dei sensi fino allo scoppio nel basso ventre. Ma il corpo dell’amante era fragile, sottile e sorprendentemente morbido. I miei seni si stringevano contro due piccole morbide forme, e tutto quel flaccidume mi ha reso incapace di agire, di ricambiare la passione, di dare sollievo.
Per un attimo pensai che la mia dolce e triste compagna stesse per strangolarmi. Vidi uno strano lampo negli occhi selvaggi di guerriero serbo, pericoloso e biancastro. Fui scossa. Ma subito dopo lei tornò docile, stanca, senza rancore. Non riprovai mai più. Avevo paura di non saper donare. Restai amica, sorella maggiore, vicemadre. Affascinata per sempre dai suoi racconti di vita diversa, così piena di passioni, storie di particolari convivenze, abbandoni che nel mondo etero non si usavano più.
Una volta Bertilla era in Italia con una mostra importante di ritratti di donne nella storia, inserite in un contesto di città-labirinto: quadro nel quadro. Fu organizzata da una potente lobby omo-femminile. Conobbe una vigilessa. Precisamente: vigile a cavallo. Non era bella. Ma c’era qualcosa di sorprendente in questa rara femmina in divisa da parata a cavallo. Suonava la chitarra. Aveva una piacevole voce. Ed era dolce nel parlare.
Si amarono con una passione che non ho mai visto né conosciuto. Sesso giorno e notte. Fisico, umido, prepotente. Bertilla, sempre più attraente, acquisiva una bellezza che forse solo la Santa conosceva, luminosa pura trasparente. Era mia ospite e qualche volta la vedevo tra le lenzuola gialle scossa, affranta, ma ricercata e plastica come i miei cani russi borzoj di cui replicava i modi, le movenze, gli sguardi lontani, misterici. Tornava a casa per lavarsi, riposare un po’, poi si vestiva con cura e sapienza di una divinità mediterranea, si truccava per un giro di tragedia greca e diventava quasi…pericolosa. Se ne andava all’incontro come in battaglia.
Battaglia era. In tutti i sensi. Poi si afflosciò. Cadde in depressione che giunge inesorabile a ogni entr’acte. Bertilla era stata l’oggetto della passione per sopravvivenza. La vigilessa tornò dall’amica di prima che stava morendo di un morbo incurabile. La loro era una relazione vitale fino alla morte. Bertilla non c’entrava. Se ne andava in giro depressa, disanimata.
Un giorno tornai a casa. Nel mio letto c’era il corpo della vigilessa strangolata.
[1] Verità
[2] Inganno
[3] L’organizazione quasi sovversiva, fondata a Praga, Malessere Della Masturbazione