Pablo Neruda, a memory and a lesson for our time/ Il segno di un ricordo

Pablo Neruda, a memory and a lesson for our time/ Il segno di un ricordo Carmelo Strano
Memory, a book and Pablo Neruda

A clipped sheet of paper awkwardly folded in two inside a book: just some notes, around 20 words in total, including: “Reiteration of motifs of memory”, “Between Pascal and Descartes, rational poetry”, “hyperrealism that loosens not paroxysmal”.

I’m only now rereading those words thanks to my friend Aurelio Caliri who asked me for some lines on the Chilean poet for a publication.

The book that for many years had incorporated my notes above mentioned was “Fine del mondo” (End of the world), a collection of poems by Pablo Neruda, just published by Edizioni Accademia (1972), edited by Giuseppe Bellini, in the Il Maestrale series directed by Carlo Bo.

On the white cover, the author’s close-up face, sideways gaze, semi-crooked lips, straight nose, arched eyebrows. He is looking away, dodging the reader’s eyes. Multidirectional views that have their common denominator in a strong linguistic connotation.

The dedication

Pablo Neruda worked with visual attention in writing the dedication to me (Milan, Rizzoli bookshop, one of my sporadic visits to the capital as a high school student). A fixed light magenta red, at the top left of the cover with a white background, composes the name NERUDA and becomes the keystone of the entire layout.

On the flagship page (immediately after the cover) the poet gesturally lays out his dedication, after a brief intense conversation he granted to the boy that I was, who was also ready to play his Spanish language fresh from a rigid school: Chile, the great world events, etc. In the dedication the poet indulges in a sort of visual composition with a marker whose color recalls that of his name on the cover.

A play on words

He starts immediately with a number: 1972. He felt the weight. Not of his age but of the ethical and political vicissitudes that vexed the world, starting with his country; the weight of time and of the crazy misadventures in society and in the conscience of individuals: Vietnam, Hiroshima, Prague, the assassination of Ché (the same fate would probably have befallen him, a year after his presence in Italy). The third and fourth lines are for the words “Pablo” and “Neruda”. In the center, a large capital C, almost a vertical oval. From it, at the bottom, the letters “ar” start, and, detached (a small syncopation), a quick sketch that just suggests the word  “melo”. But the visual touch of the poet laureate of the Nobel Prize in ’71 is above all in the standard prefix for the dedication… “a”. The “a” is not prefixed, it is placed inside the large C, and is more of a dot-stain than a distinct vowel.

Poems and sadness

So, four lines carried out obliquely, perhaps reminiscent of Apollinaire’s Calligrams. The singer of personal and collective memory (already in 1960 his Memorial de Isla Negra was born), is pervaded by sadness, he has darkened. A serious illness is added. But it was probably the man’s vile hand that anticipated his death. If the title of the “galeotto” book is “Fin de mundo” (galeotto is a Dante’s word standing for a circumstance that conspires to give birth to something, N.d.R.), a poem is titled “Tristísimo siglo”. And he: “…soy el hombre sonoro/ testigo de las esperanzas en este siglo asesinado”. And yet the poem “La puerta” ends like this: “My deber es vivir, morir, vivir”, even if, a few verses before, he says: “Todos estábamos esperando/ como en las estaciones en las noches de/ invierno: / esperábamos la paz/ y llegaba la guerra”.

Yes, you were right, wise Pablo, and you are still right: a condition – as you say – of “Cabellos sin cabeza”, of “anteojos sin ojos”. But also all “desterrados” (exiled).

A very ethical and passionate lesson

“Foreigners everywhere” says the title of the Venice Biennale, in this 2024 in which peace does not arrive and wars are immortal despite the thousands of civilians blindly bombed even inside hospitals. However, you did not experience generalized instability, you had ideas to believe in and to write about. You haven’t seen the small global village attacked by the tsunami of the adiastematic information (without intervals), crushed by the great omnivorous global finance in the glittering universe of pixels. But your ethical and passionate lesson – a mix of reality and memory, of sublimating memory and crudeness, of poetry and politics – is very auspicious today.


Pablo Neruda, a memory and a lesson for our time/ Il segno di un ricordo Carmelo Strano

Un libro e la memoria

Il ritaglio di un foglio di carta goffamente piegato in due all’interno del libro: alcuni appunti, in totale 20 parole circa, tra cui: “Reiterazione motivi della memoria”, “Tra Pascal e Cartesio, poesia razionale”, “iperrealismo che si allenta non parossistico”. Li rileggo solo adesso grazie all’amico Aurelio Caliri che mi chiede qualche cenno sul poeta cileno destinato a una sua pubblicazione.

Il libro che per tanti anni ha inglobato i miei appunti di cui sopra, era “Fine del mondo”, poesie di Pablo Neruda, appena pubblicato per le edizioni Accademia (1972), a cura di Giuseppe Bellini, nella collana Il Maestrale diretta da Carlo Bo.

Sulla copertina bianca, un primo piano del volto dell’autore, sguardo in trasversale, labbra semi-storte, naso dritto, sopracciglia arcuate. Sta guardando da un’altra parte, schiva gli occhi del lettore. Sguardi pluridirezionali che hanno il proprio comune denominatore in un forte connotato linguistico.

Ha lavorato di attenzione visiva, Pablo Neruda, nello scrivermi la dedica (Milano, Libreria Rizzoli, una delle mie sporadiche visite nel capoluogo da studente liceale). Un rosso magenta leggero fissa, in alto a sinistra della copertina con fondo bianco, il nome NERUDA e si fa chiave di volta di tutto l’impaginato.

La dedica

Nella pagina occhiello (subito dopo la copertina) il poeta stende gestualmente la sua dedica, dopo una breve chiacchierata concessa al ragazzotto che ero, peraltro pronto a esternare uno spagnolo fresco di rigida scuola: il Cile e i grandi eventi mondiali. Nella dedica il poeta si abbandona ad una sorta di scrittura visiva con un pennarello il cui colore richiama quello del suo nome in copertina.

Un gioco di parole

Comincia subito con un numero: 1972. Sentiva il peso. Non già dell’età ma delle vicissitudini etiche e politiche che vessavano il mondo a cominciare dal suo Paese; il peso del tempo e delle forsennate disavventure nella società e nella coscienza dei singoli: il Vietnam, Hiroshima, Praga, l’assassinio del Ché (stessa sorte verosimilmente sarebbe toccata a lui, un anno dopo quella sua presenza in Italia). La terza riga e la quarta sono per Pablo e per Neruda. Al centro, una grande C maiuscola, quasi un ovale in verticale. Da essa parte, in basso, “ar” e, staccato (piccola sincope), un abbozzo veloce che lascia intuire: “melo”. Ma il tocco visivo del poeta laureato Nobel nel ’71 è soprattutto nel prefisso di prassi per la dedica…“a”. Solo che la “a” non è premessa, è collocata dentro la grande C, e risulta più un punto-macchia che una vocale distinta.

Poesia e tristezza

Quattro righe svolte obliquamente, forse memoria dei Calligrammi di Apollinaire. Il cantore della memoria personale e collettiva (già nel 1960 con Memorial de Isla Negra), è pervaso di tristezza, si è incupito. Si aggiunge una malattia grave. Ma verosimilmente ad anticipare la sua morte è stata la mano vile dell’uomo. Se il titolo del libro galeotto è “Fin de mundo”, una poesia si intitola “Tristísimo siglo”. E lui: “…soy el hombre sonoro/ testigo de las esperanzas en este siglo asesinado”. E però la poesia “La puerta” chiude così: “Mi deber es vivir, morir, vivir”, anche se, pochi versi prima, dice: “Todos estábamos esperando/ como en las estaciones en las noches de/ invierno: / esperábamos la paz/ y llegaba la guerra”.

Una grande lezione etica

Sì, avevi ragione, saggio Pablo, e hai ragione: una condizione – come tu dici –  di “Cabellos sin cabeza”, di “anteojos sin ojos”. Ma anche tutti “desterrados”, esiliati. “Stranieri ovunque” dice il titolo della Biennale di Venezia, in questo 2024 in cui la pace non arriva e le guerre risultano immortali nonostante le migliaia di civili bombardati alla cieca anche dentro gli ospedali. Tu però non hai conosciuto l’instabilità generalizzata, avevi idee in cui credere e sui cui scrivere. Non hai visto il piccolo villaggio globale aggredito dallo tsunami dell’informazione adiastematica, senza intervalli, schiacciato dalla grande onnivora finanza globale nel rutilante universo dei pixel. Ma la tua lezione etica e appassionante – mix di realtà e ricordo, di memoria sublimante e crudezza, di poesia e politica – risulta oggi assai propizia.