Fra il 1963 e il 2005 l’estensione delle terre coltivate è aumentata del 32%. Buona parte di questo incremento è stato determinato dalla necessità di nutrire gli animali da allevamento. Il consumo di carne nel mondo occidentale è considerato un indicatore del miglioramento del tenore di vita. In termini matematici il raddoppio del reddito corrisponde a un incremento della pressione antropica sul suolo del 35%. Ne consegue che i Paesi sviluppati sfruttano molto più suolo degli altri.
Nei Paesi dell’Ue, ad esempio, abbiamo un consumo di suolo di 2,5 ettari a persona, a fronte di una media di 1,2 ettari degli altri Paesi. A livello planetario, circa il 60% del suolo è utilizzato per le esportazioni verso i Paesi più ricchi, con picchi estremi come il Giappone, che importa il 92%. La Ue si ferma al 50%. Di fatto i costi ecologici sono trasferiti dai Paesi ricchi ai Paesi poveri. La devastazione dell’Amazzonia, ad esempio, è determinata dalle crescenti esportazioni di carni brasiliane. Per ampliare gli allevamenti di questo Paese bisogna distruggere aree sempre più ampie di quello che viene definito il polmone verde del mondo.
Poiché la terra va irrigata, l’estensione dell’agricoltura e dell’allevamento sono strettamente legati alla penuria d’acqua. Per avere un’idea di tale correlazione si è calcolato che un kg di carne di manzo comporta un consumo di 15.000 litri di acqua lungo la catena della sua produzione, dall’alimentazione dell’animale al banco del supermercato. Fra il 1960 e il 2010 il consumo di acqua è raddoppiato. Vero è che una parte significativa delle acque utilizzate può essere depurata e ancora utilizzata (il cosiddetto «flusso di ritorno») ma è molto più conveniente spostare la produzione agricola in aree dove le norme ambientali sono eluse.
Le coltivazioni richiedono l’uso di erbicidi e pesticidi che contribuiscono all’incremento delle emissioni di gas e l’accumulo di azoto e fosforo il cui uso fra il 1900 e il 2000 è quintuplicato e non tende a ridursi. Non occorre essere esperti ricercatori per capire che l’intero sistema di produzione non è compatibile con la preservazione dell’ambiente e che occorreranno scelte politiche coraggiose e pericolose per modificare i trend attuali.
Intanto, stretta fra l’emergenza coronavirus e la crisi turco – siriana, Ursula von der Leyen trova il tempo di rispondere a domande su ciò che la sua Commissione intende fare per il problema climatico. L’obiettivo – risponde – è un grande Green Deal europeo che porti entro il 2050 alla decarbonizzazione del continente. La natura al centro – dunque – e non solo a parole ma finalmente anche con atti legislativi vincolanti. Il 4 marzo la Commissione europea ha presentato il suo progetto complessivo che dovrà essere discusso dal parlamento.
Ursula sa bene che la transizione verso un’Europa verde ha un costo enorme che rischia di lasciare indietro molti. Ma, per questo ha detto subito che 100 miliardi di euro sono già accantonati per parare il colpo e un trilione di euro sarà disponibile nei prossimi dieci anni. Il progetto di legge contiene obiettivi chiaramente esplicitati.
Bisogna evitare la distruzione delle merci invendute e tornare alla vecchia abitudine di riparare invece che sostituire. Ciò vale soprattutto per tablet, cellulari e altri congegni elettronici. Qualunque nuovo prodotto deve essere pensato per essere riparato o facilmente riciclato nelle sue parti. Gli oggetti di plastica dovranno progressivamente avere una vita media sempre più lunga fino a ridurre al minimo l’abitudine del monouso e sostituirla con l’idea della riciclabilità.
Bisogna sostituire l’acquisto di beni durevoli con l’affitto in modo da ridurre l’incentivo dei produttori a venderne di nuovi a scadenze sempre più ravvicinate. Occorre avere caricabatteria e porte USB universali, data la rarità dei materiali con cui sono costruiti. L’industria tessile dovrà produrre solo abbigliamento riciclabile, che sarà riconoscibile tramite un apposito marchio. Discariche e inceneritori saranno tassati progressivamente fino a rendere conveniente eliminarle, ecc.
È evidente che questi e altri orientamenti hanno come obiettivo la realizzazione della cosiddetta economia circolare, ma non affrontano ancora il problema delle fonti di energia. A questa obiezione gli estensori del piano rispondono che solo quando si sarà realizzata un’economia veramente circolare sarà possibile eliminare tutti i combustibili fossili.
Inutile fantasticare su quest’obiettivo senza potere dimostrare con i fatti che alternative esiste.