Una volta che la pandemia sarà passata, nulla sarà più come prima. È l’auspicio da più parti invocato, in maniera trasversale e in relazione a tanti ambiti. La moda non fa eccezione.
L’evoluzione del settore rispecchia due tendenze ben evidenti a livello evolutivo e sociologico. La prima: l’uomo ha progressivamente incrinato l’equilibrio con la natura e con i suoi ritmi, privilegiando lo sfruttamento delle risorse sulla protezione dell’ambiente. In secondo luogo, l’ago della bilancia dei bisogni umani si è progressivamente spostato dal soddisfacimento dei bisogni essenziali per la sopravvivenza al soddisfacimento di bisogni “immateriali”: la necessità di auto-realizzarsi, ossia di realizzare le proprie aspettative e potenzialità, e di godere della stima altrui.
Vestirci non risponde più solo alla necessità di coprire il nostro corpo o di adeguarci alle convenzioni sociali. Quando acquistiamo un capo d’abbigliamento, vogliamo che questo esalti i nostri “punti forti”, che ci faccia sentire bene con noi stessi, sicuri agli occhi degli altri. Cambiare continuamente guardaroba risponde alla nostra spasmodica voglia di rinnovamento.
In tal senso il settore del fashion ha intercettato i nostri desideri più “immateriali”. La moda non si rinnova più ogni 4 stagioni, ma si è frammentata in una miriade di micro-stagioni. Si arriva fino a 52 nel fast-fashion: la moda usa-e-getta in cui il costo di un capo d’abbigliamento è così irrisorio da permettere anche a persone con un reddito medio-basso di rinnovare continuamente il guardaroba.
Un sistema insostenibile. A (ri)lanciare l’invettiva è Giorgio Armani in una lettera indirizzata a WWD, rivista specializzata del settore moda. Senza usare mezzi termini, lo stilista definisce “assurdo lo stato attuale delle cose, con la sovrapproduzione di capi e un criminale non allineamento tra stagione metereologica e stagione commerciale”.
Dietro le sue parole c’è la consapevolezza dell’insostenibilità degli sprechi e degli eccessi che tradizionalmente caratterizzano il settore della moda; la consapevolezza del sovra-sfruttamento del numero limitato delle risorse a disposizione sul pianeta e dei problemi ambientali cui la moda direttamente contribuisce. Un dato tra tutti: la quantità di rifiuti tessili prodotti nel periodo compreso tra il 1960 e il 2015 è aumentata dell’811%.
L’auspicio di Armani è che da questa consapevolezza e dalla drammatica crisi che stiamo vivendo nasca una riflessione di ampio orizzonte sul ruolo della moda. Il momento di fermo che l’industria della moda sta attraversando può rappresentare un’opportunità per ripartire con una progettualità e una mentalità diverse. Per dare vita a una moda più “umana” che privilegi l’autenticità sul superfluo. Sicuramente una grande sfida per l’industria della moda, per le aziende produttrici ma anche per i consumatori.