In Scotland (COP 26 Glasgow) Italian Prime Minister Mario Draghi had identified the real obstacle in fighting against the consequences of climate change. A global problem can only be answered with a global strategy. In simpler words, it is necessary that all two hundred countries, whose delegates were present at the conference, agree to make coordinated policies to save the planet. However, this is not the case.
The most serious problem in the fight against climate change is the diversity of the economic, social, and political objectives of the countries. For example, it has been clear that the developed countries do not want to pay the costs of 150 years of atmospheric poisoning, through which they have built their wealth. China has been criticized for using an enormous (huge) amount of coal for its own industry.
But it has been forgotten that the coal-fired power plants that are no longer in use in the West have been sold (were sold) by developed countries to Chinese industries, and not so long ago.
Nobody says that prospecting aimed at identifying new coal mines is often financed by banks in developed countries. It has been hypocritically ignored that the money invested by these banks in prospecting abroad will still produce further pollution on a global level, even if outside national borders. The United States, Canada, Great Britain, and Germany have refused to prohibit this practice.
Real aid or interest-rate loans for poor countries?
We also fail to distinguish between the actual aid provided to developing countries and loans, which place these countries in a debt situation with heavy budgetary difficulties. The “Northern Front” has not shown solidarity with poor countries. Only 40 of the nearly 200 delegates signed an agreement that provides for the blocking of the construction of new coal plants and the closure of those in operation by 2040. China, where coal generates about 70% of electricity, has not signed the agreement. The Beijing delegate said there will be no carbon emissions reductions before 2026. Non-fossil fuels, due to the growing demand for energy, could only meet half of the total demand. For similar reasons, India did not sign, also in consideration of the extreme poverty of a large part of its population. The United States did not sign, however, pledged to reduce carbon emissions only by 2035. Australia, which is the second largest coal exporter on the planet and the eleventh user, also rowed against the agreement. South Korea, Poland and Indonesia, major producers, or consumers of coal, have declared that they will not build new polluting plants.
Is it possible to collaborate for the planet while remaining economically competitive?
We do not want to sink the scalpel into the roots of the climate issue, that is the development model now shared by all and based on an increasingly tough competition. The exasperated consumerism requires a continuous race from economic groups in order to survive and excel in a productive sphere. This concretely means keeping costs as low as possible, even at the cost of poisoning air, land, and water, and disposing of what is not needed without respect for the environment. Those who make more ethical choices risk being left behind and being crushed and engulfed by the competition. This is true not only in relations among nations, but also in relations among physical persons. The individualism that emerges in individual behaviors is nothing more than the mirror of a way of relating between communities in which aggression plays a prevalent role.
What should we say, for example, about the stratospheric figures that revolve around the arms trade, which promises to be continuously growing. Only a part of them would be enough to facilitate the energy transition that it claims to want to pursue at all costs. And finally, it is questionable whether the consequences of global warming really have any relevance in the complexity of the planetary political game. Are the leaders of the financial giants really worried about the people of Polynesia forced to flee their islands? Or the fact that Venice and Amsterdam are in danger of going underwater? And if extreme events occur, won’t they be considered the price to pay for human development? It will be difficult to find honest answers to these questions.
Una chiosa all’evento della COP26 di Glasgow
Il primo ministro italiano Mario Draghi in Scozia alla COP26 Glasgow aveva individuato il vero ostacolo nella lotta alle conseguenze del mutamento climatico. A un problema planetario si può rispondere solo con una strategia planetaria. In parole più semplici è necessario che tutti i duecento Paesi, i cui delegati erano presenti alla conferenza, accettino di fare politiche coordinate per salvare il pianeta. Ma così non è.
Il problema più grave nella lotta al mutamento climatico è costituito dalla diversità degli obiettivi economici, sociali e politici dei diversi Paesi presenti alla COP26 di Glasgow. Ad esempio, si è visto chiaramente che i Paesi sviluppati del Nord del mondo non vogliono pagare i costi di 150 anni di avvelenamento atmosferico, grazie al quale hanno costruito la loro ricchezza. Si è contestato alla Cina di utilizzare un’enorme quantità di carbone per la propria industria.
Ma ci si è dimenticati del fatto che le centrali a carbone in disuso in Occidente, le hanno vendute i Paesi sviluppati alle industrie cinesi, e in tempi non troppo remoti.
Si tace il fatto che le prospezioni finalizzate a individuare nuove miniere di carbone sono spesso finanziate da banche dei Paesi sviluppati. Si è ignorato ipocritamente che il denaro investito da tali banche nelle prospezioni all’estero produrrà comunque ulteriore inquinamento a livello planetario, anche se fuori dai confini nazionali. Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Germania si sono rifiutati di proibire tale prassi.
COP26 Glasgow, aiuti reali o prestiti ad interesse per i Paesi poveri?
Si arriva anche a non distinguere gli aiuti veri e propri erogati a favore dei Paesi in via di sviluppo con i prestiti, che pongono questi Paesi in una situazione debitoria con pesanti difficoltà di bilancio. Il “fronte del Nord” alla COP26 di Glasgow non ha dato prova di solidarietà con i Paesi poveri. Solo 40 delegati dei quasi 200 presenti hanno sottoscritto un accordo che prevede il blocco della costruzione di nuove centrali a carbone e la chiusura di quelle in funzione entro il 2040. Non ha firmato la Cina, dove il carbone genera circa il 70% della sua elettricità. Il delegato di Pechino ha dichiarato che non ci saranno riduzioni di emissioni di carbone nel suo Paese prima del 2026. I combustibili non fossili, a causa della crescente richiesta di energia, potrebbero soddisfare solo la metà della domanda complessiva. Per ragioni analoghe non ha firmato l’India, anche in considerazione dell’estrema povertà di buona parte della sua popolazione. Non hanno firmato gli Stati Uniti, che si sono impegnati, però, a ridurre le emissioni di carbonio solo entro il 2035. Ha remato contro l’accordo anche l’Australia, che è il secondo esportatore di carbone del pianeta e l’undicesimo utilizzatore. Corea del Sud, Polonia e Indonesia, grandi produttori o consumatori di carbone, almeno hanno dichiarato che non costruiranno nuove centrali inquinanti.
COP26 Glasgow: possibile collaborare per il pianeta restando in competizione sul piano economico?
Alla COP26 di Glasgow non si vuole affondare il bisturi sulle radici della questione climatica. Intendiamo con ciò il modello di sviluppo ormai da tutti condiviso e basato su una competizione sempre più dura. Il consumismo esasperato richiede ai gruppi economici una gara continua per sopravvivere e primeggiare in un ambito produttivo. Ciò significa concretamente tenere i costi quanto più bassi possibile, anche a costo di avvelenare aria, terra e acqua, e smaltire ciò che non serve senza rispetto per l’ambiente. Chi fa scelte più etiche rischia di restare indietro e di essere schiacciato e fagocitato dalla concorrenza. Ciò non vale soltanto nei rapporti fra nazioni, ma anche nelle relazioni fra persone fisiche. L’individualismo che emerge nei comportamenti singoli non è altro che lo specchio di un modo di relazionarsi fra collettività in cui l’aggressività gioca un ruolo prevalente.
Che cosa dovremmo dire, ad esempio, delle cifre stratosferiche che ruotano intorno al commercio delle armi, che promette di essere in continua crescita. Basterebbe solo una parte di esse ad agevolare quella transizione energetica che si dichiara di voler perseguire a tutti costi. E infine c’è da chiedersi se veramente le conseguenze del riscaldamento globale hanno rilevanza nella complessità del gioco politico planetario. Realmente i dirigenti dei colossi finanziari si preoccupano dei popoli della Polinesia costretti ad abbandonare le loro isole? O del fatto che Venezia e Amsterdam rischiano di andare sott’acqua? E se si registreranno eventi estremi non si potrà considerarli come il prezzo da pagare allo sviluppo umano? Sarà difficile trovare risposte sincere a questi quesiti.
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