Modern dance, l’eredità dei grandi maestri

Paul Taylor Dance Company in “Esplanade”, foto di Paul B. Goode

ELISA GUZZO VACCARINO – Conservare il patrimonio e perdere l’anima. È questo il rischio? Il tema è al centro della vivace discussione sulla sopravvivenza della grande danza americana del secolo scorso.

I creatori della modern dance, le figure che hanno fondato tecniche e compagnie, accumulato titoli e gloria, sono scomparse e la loro eredità è a rischio di dispersione  o di riproduzione meccanica, senz’anima appunto.  Chi si occupa di preservare questi tesori culturali è in grado di trasmettere l’essenza del magistero dei padri e madri fondatori? Ci si accalora sui pericoli di un uso commerciale, a freddo, di ciò che i coreografi-inventori-curatori hanno lasciato dietro di sé.

Le compagnie moderne nacquero come creazione di una persona, spesso protagonista al centro del  suo piccolo gruppo di devoti, e se la catena di trasmissione da una generazione all’altra di interpreti doc si spezza, i lavori cesseranno di esistere, autentici e onesti. La longevità di molti dei capiscuola ha imposto molto, forse troppo, lentamente la centralità della questione.

Martha Graham, la Gran Sacerdotessa, l’ “acrobata di Dio”, è mancata nel 1991 a 97 anni; il suo allievo ribelle, il “Guru del postmodern” Merce Cunningham, ci ha lasciato nel 2009 a 90 anni; Paul Taylor, a cui si deve una danza atletica e ottimista, è morto a 88 anni.

Cosa ne è di loro e dei loro pezzi? E che esempio offrono alle personalità di maggiore spicco sulla scena statunitense e globale attuale?

Martha Graham, sempre attesa da un pubblico adorante al momento degli applausi finali, in abiti e gioielli da Divinità arcaica, dispose che suo erede fosse Ron Protas, un buon amico di quarant’anni più giovane di lei che le fu affettuosamente accanto nei suoi ultimi anni. La compagnia non lo accettò e si sbandò nel fervore di una battaglia giudiziaria durata sei anni prima di tornare in possesso dei diritti sull’insegnamento della tecnica e sulle opere di repertorio.

Intanto, nel periodo più buio, fu Richard Move, en travesti, a indossare i panni della Divina Martha e a celebrare il suo pensiero, il suo stile, la sua danza.

Visto l’accaduto, Merce Cunningham, il “liberatore della danza” dalla sudditanza alla musica, d’intesa con il compagno John Cage, lasciò istruzioni precise e prudenti. Il gruppo gli doveva sopravvivere solo per due anni e poi i suoi lavori dovevano poter essere trasferiti a quelle compagnie che ne facessero richiesta, essendo in grado di eseguirli, secondo il giudizio dei responsabili della qualità di un apposito Trust https://www.mercecunningham.org. L’anno scorso il suo Fielding Sixes è stato montato anche a Cuba, con la compagnia Malpaso, che lo ha portato poi al Joyce Theatre di New York. È di quest’anno un documentario in 3D per i cent’anni di Merce, grande amico delle tecnologie, prima il video poi il computer e poi il virtuale nel magnifico Biped, per la regia di Alla Kovgan https://www.mercecunningham.org/activities/centennial/premiere-of-alla-kovgans-3d-cunningham-documentary/.

Anche le danze di Trisha Brown, allieva di Cunningham, ideatrice di opere aeree e musicalissime, morta nel 2017, sono passate ad altre compagnie classico-moderne, tra cui il gruppo CanDoCo (si può fare) con danzatori diversamente abili impegnati in Set and Reset, musica di Laurie Anderson, décor di Robert Rauscehnberg.

Paul Taylor ha designato a sorpresa come suo erede Michael Novak, un giovane danzatore del suo gruppo. Per finanziarne il futuro vendette quattro tele del già citato Rauschenberg, con un compito: trovare nuovi danzatori e commissionare nuove danze per quella che fu una compagnia mono-coreografica con performer devoti di lungo corso.

In ogni caso, gli anziani che ritengono di conoscere meglio di chiunque il lascito dei maestri, hanno difficoltà ad accogliere i nuovi danzatori che via via devono integrarsi, magari solo a periodi e non dedicandosi per tutto il corso della loro professione a incarnare l’opus di un/a solo/a coreografo/a.

Il corpus delle opere, così come accade nel balletto classico, si salva in corpi nuovi, ma che ne è dell’anima?

Martha Graham, come Emily Dickinson, in “Letter to the World”, foto di barbara Morgan, New York, 1940.