Tennessee Williams (1911-1983) è uno dei drammaturghi americani del XX° secolo che, insieme a Eugene O’Neill e Arthur Miller, hanno lasciato un segno nel tratteggiare i caratteri degli Stati Uniti e in generale le storture del loro esteso Paese. La drammaturgia americana novecentesca è in prevalenza legata al realismo, analogamente a quanto accade in Europa dove si registrano molteplici forme a secondo della nazione. Negli Usa sono vive le ferite delle guerre di Indipendenza e le differenze fra il Nord industriale e il Sud agricolo sono una forte lacerazione interna.
Williams, di nascita Thomas Lenier, diventa Tennessee nel 1939 in collegamento con l’omonimo stato del Sud. Proviene da una famiglia che oggi chiameremo disfunzionale: considerato poco “maschio” dal padre, che lo chiama “Miss Nancy” (Thomas si scoprirà omosessuale vivendo pienamente la sua inclinazione), vive con i nonni e sviluppa un rapporto molto stretto con il nonno materno, pastore della Chiesa Episcopale. Quell’esistenza così fuori dai canoni è presente nei suoi lavori con tratti autobiografici. Dopo il grande successo di “Lo zoo di vetro” (1944) e soprattutto dopo i successivi lavori (“Un tram chiamato desiderio” ecc), vive il declino della sua carriera. Ciò lo porterà all’abuso di alcool e droghe, sino alla morte, causata dall’avere ingoiato un tappo di plastica.
“Lo zoo di vetro” consta di cinque scene fortemente intrise di elementi autobiografici. La figura del figlio Tom – il narratore, poeta “travestito” da magazziniere non solo porta il nome del drammaturgo americano, ma ha anche molto del suo carattere. Un po’ di indolenza al lavoro impiegatizio, l’attitudine a frequentare i cinematografi, la vena poetica. Laura, la sorella, è fragile, delicata e malata proprio come la sorella di Williams. La madre Amanda è costruita sulla figura della propria madre, una donna in cerca di una via di uscita da un’esistenza stretta fra le convenzioni sociali, con un marito violento e il ricordo del passato nella tranquilla provincia fra le piantagioni di cotone, con un padre parroco.
Una versione attualizzata è portata in scena al Teatro Franco Parenti dal giovane regista Luigi Siracusa. Egli dirige quattro attori giovani, molto dotati, che armonizzano bene fra loro: Valentina Bartolo è Amanda Wingfield, madre di Laura e Tom, Francesco Sferrazza Papa è Tom, Zoe Solferino è Laura, Luca Carbone è Joe, collega di Tom. Il quinto protagonista è il padre, assente in scena. Di lui soltanto una metafora espressa da una luce che si accende a tratti. Il grande assente, proprio lui, il padre, è però sempre presente perché è la causa della disgrazia della famiglia.
La scelta del regista di creare un unico ambiente, spoglio, è indovinata. L’azione avviene nell’abitazione degli Wingfield che Williams descrive come una di quelle tipiche della classe media americana. Un appartamento che si affaccia sul retro del palazzo, su un vicolo, al quale si accede da una scala antincendio che simbolicamente rimanda al fuoco della disperazione umana e alla necessità di spegnerla. Siracusa aggira queste indicazioni dell’autore e presenta una scena vuota e fredda, grazie ai colori dei tendaggi e alle luci.
Tom, il figlio, ha il ruolo di introdurre lo spettatore nella storia del nucleo familiare che la madre, Amanda, ha portato avanti da sola. I fatti sono raccontati come il figlio li ricorda e, sin dall’inizio, si percepisce che possano essere stati piegati allo stato emotivo del giovane. Questa situazione è annunciata esplicitamente da Tom e rafforzata da un pannello trasparente sospeso, quasi una quarta parete che divide scena e pubblico, sul quale campeggia una frase di Williams che in lingua originale suona come un monito: “Memory takes a lot of poetic license. It omits some details; others are exaggerated, according to the emotional value of the articles it touches, for memory is seated predominantly in the heart”. Sintetizzando: la memoria, spesso, risiede nel cuore.
Sul palco, definito da tendaggi e dal pannello che scende dall’alto, i quattro attori si muovono come fossero in una cella. Animali ingabbiati, come le figure degli animali fantastici collezionati da Laura e riprodotti sui vetrini che la ragazza colleziona, ciò che lei chiama il suo “zoo di vetro”. Per lei, “zoppa”, la madre intende con forza e disperazione trovare un amore e una sistemazione. L’esistenza lontana dal mondo, a causa del disagio fisico di Laura, deve essere colmata. La madre desidera, per la figlia, una vita migliore della propria. La donna ricorda la propria gioventù, i pretendenti, la vita serena e gli agi. È una memoria che, come un coltello, affonda nel suo presente. Un presente paludoso che inghiotte, immobilizza.
Il senso di impotenza dei personaggi è ben reso dagli attori che appaiono sempre sospesi fra volontà e conseguenze delle loro azioni, avvolti in una tensione che Williams risolve con la sconfitta o con la fuga.
Un bel lavoro con scelte di regia appropriate, nonostante qualche piccola debolezza interpretativa.
Ciò che vale la pena rilevare è la limitata visibilità generata dal pannello sospeso. Ma è interessante questa scelta del regista poiché l’attenzione dello spettatore è spostato sulla forza poetica dello “zoo” e dei personaggi solo quando è necessario e con la lentezza opportuna.
Lo zoo di vetro
di Tennessee Williams
traduzione Gerardo Guerrieri
regia Luigi Siracusa
con Francesco Sferrazza Papa, Valentina Bartolo, Zoe Zolferino, Luca Carbone
scene e costumi Francesco Esposito
luci Pasquale Mari
musiche Laurence Mazzoni
produzione Teatro Franco Parenti / Compagnia dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”
Teatro Franco Parenti, fino al 10 novembre