La capitale laica della democrazia americana è stata oltraggiata da qualche migliaio di dimostranti pro Trump, incitati dal presidente uscente. Ma la retorica della violenza, e la celebrazione della forza sono stati leit motivricorrenti di Donald nei quattro anni della sua presidenza, culminando alla fine nell’accusa «preventiva» di brogli elettorali da parte del Partito Democratico. Tutto era stato organizzato per questa «marcia su Washington» ed era sufficiente osservare le telecamere delle maggiori stazioni ferroviarie americane per constatare che cosa stava succedendo. La sindaca di Washington aveva richiesto l’intervento della guardia nazionale, ma è stata ignorata. Lascia piuttosto perplessi che l’FBI nulla sapesse di ciò e che nessuna misura preventiva fosse stata presa per evitare che questi «ribelli» vandalizzassero Capitol Hill.
Le prossime due settimane ci diranno che cosa è successo esattamente, ma alcune osservazioni possono essere fatte già da ora. Primo: gli «assalitori» non rappresentano sicuramente la stragrande maggioranza del popolo americano, che ha sempre considerato il rispetto per i simboli delle istituzioni come un vero sacramento. Secondo: essi non rappresentano neanche quei sessanta milioni di elettori che quattro anni fa hanno democraticamente eletto Trump, mossi da un malessere generalizzato e fiduciosi che un politico decisionista potesse risolvere i loro problemi. Terzo: il lato oscuro e variopinto dell’America, quello francamente razzista, suprematista e nostalgico della bandiera dei sudisti, è venuto a galla e ciò costringerà ambedue i partiti del Congresso a una seria riflessione politica. Quarto: la democrazia formale delle disuguaglianze – in cui cresce la marginalità economica di una rilevante fetta della popolazione – mostra i suoi limiti e rende improrogabile un ripensamento profondo.