Leonardo Sciascia era sicuramente una personalità autorevole. Rispettava tutti e allo stesso tempo incuteva rispetto. Un semplice maestro di un piccolo paese assai periferico, Racalmuto in provincia di Agrigento.
Si potrebbe dire che era autorevole perché era un importante e riconosciuto intellettuale. Questo è possibile ma andrebbe subito detto che ci sono e ci sono stati nella storia umana grandissimi artisti, grandissimi intellettuali che non erano e non sono stati autorevoli.
La realtà è che l’autorevolezza è una qualità assai rara negli esseri umani. Credo che sia in parte un tratto naturale, innato. Ma credo sia anche il risultato di una serie di caratteristiche come l’onestà e la correttezza, la coerenza ed il coraggio. Quando esse sono presenti tutte insieme in una persona, la rendono appunto naturalmente autorevole.
Ebbene senza bisogno di ripensarlo, Leonardo Sciascia possedeva queste qualità, direi in modo spiccato anche se mai arrogante. Ed è per questo che tutta la sua esistenza ha lasciato una lunga, marcata traccia.
La gioventù
Egli è stato maestro di italiano, scrittore, drammaturgo, poeta, giornalista, storico e critico d’arte ed anche uomo politico. Nei suoi testi, sia che siano romanzi, racconti, saggi o recensioni non racconta quasi mai di sé, non è alla ricerca di se stesso com’era successo a Elio Vittorini che lo precedeva di meno di una generazione.
Lui, troppo giovane, era nato nel 1921 a Racalmuto, un comune di qualche migliaia di abitanti che oggi, abolite le province, fa parte del libero consorzio comunale dello storico comune di Agrigento.
Troppo giovane, dicevo, per essere catturato dall’ideologia fascista che soprattutto negli anni venti aveva messo in luce una vitalità ed un dinamismo culturale che aveva coinvolto moltissimi giovani italiani ed anche molti ormai maturi ed affermati artisti di quel tempo.
Penso all’architetto Giuseppe Terragni, il più grande della sua generazione, e non solo in Italia; penso a Filippo Tommaso Marinetti, creatore del Futurismo italiano, un movimento di idee ed invenzioni straordinarie, penso al pittore Mario Sironi, certamente tra i più grandi del Novecento italiano e tanti altri.
Negli anni trenta l’aria era totalmente cambiata; l’avvento al potere in Germania del nazismo hitleriano con le elezioni del 1933 e la successiva e sempre più asfissiante alleanza tra fascismo e nazismo, aveva indotto molti di questi giovani a cambiar strada. E molti di quelli che erano ancora più giovani, e tra questi Leonardo Sciascia, a non intraprendere quella strada, neanche per un attimo.
Sciascia scrittore
La scrittura come analisi
Non so quanti libri di Karl Marx e Friedrich Engels abbia letto da giovanissimo Leonardo Sciascia; ma quel che a me appare sicuro è che è cresciuto culturalmente come un comunista. Il suo sguardo critico era sistemico. Analizzava l’umanità nel suo insieme: dal punto di vista antropologico, culturale, sociale e politico.
E così pure analizzava naturalmente il sistema mafioso siciliano con il quale gli isolani, e quindi anche lui erano costretti a convivere dal 1861. Mai c’era stato prima di allora un sistema della criminalità così invasivo e organizzato tanto da rassomigliare ad una struttura surrogata dello stato.
E questo dovrebbe farci tutti un po’ più approfonditamente riflettere sui processi costitutivi dell’unità d’Italia che, per lo meno per le aree meridionali di questo paese, abbiamo pomposamente ed impudicamente chiamato RISORGIMENTO.
“Il giorno della civetta”
Leonardo Sciascia scrive, giusto agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso il suo primo romanzo dedicato alla mafia: “Il giorno della civetta” che viene pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1961. È un romanzo breve, o se volete un lungo racconto esemplare su questo argomento.
Il tessuto linguistico di questo romanzo è denso ed intenso, allo stesso tempo cristallino, manzoniano direi. Quello della “Storia della colonna infame”, pubblicato come appendice storica al suo celeberrimo romanzo storico “I promessi sposi” che Alessandro Manzoni aveva voluto aggiungere nella sua edizione definitiva del 1840. Leonardo Sciascia questo testo lo farà ripubblicare negli anni settanta con una sua prefazione. Si vantava spesso, il nostro autore, di aver letto “I promessi sposi”, molto prima che la scuola l’obbligasse a farlo.
Letteratura e Cinema
Vorrei anche aggiungere, ma ne parlerò più diffusamente di seguito, che il suo linguaggio letterario era stato anche fortemente influenzato dal linguaggio proprio che è del cinema, che lui nella sua giovinezza aveva moltissimo frequentato.
Credo che Leonardo Sciascia avrebbe potuto e voluto essere, come lui stesso ha dichiarato “fino oltre i vent’anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore”. Uno sceneggiatore per il cinema e probabilmente sarebbe stato tra i grandi in questo settore.
Sciascia e il cinema
Era uno scrittore, la sua scrittura era sintetica, logica e piena di ritmo. Tutte caratteristiche tipiche del linguaggio cinematografico. Esemplari in questo senso le prime due pagine del “Il giorno della civetta”. Un linguaggio limpido ed efficace, visivo che aveva sicuramente assimilato negli anni trenta, come ho detto, soprattutto nel periodo che frequentava la scuola magistrale di Caltanisetta.
Vedeva moltissimi film, anche due al giorno. Più volte ha dichiarato che allora il cinema per lui era tutto. Racalmuto, dove era nato il nostro autore, oggi grazie allo sviluppo del turismo che coinvolge tutto l’agrigentino e localmente grazie all’archivio Leonardo Sciascia, è una meta frequentata. Quel che è certo è che cento anni fa non era così. Si viveva praticamente isolati. Era la provincia della provincia.
L’avvento del cinema aprì un’importantissima finestra sulla modernità che non poteva non coinvolgere i giovani, tutti i giovani che lì crescevano e tra questi Leonardo Sciascia che studia e che conseguirà poi a Caltanisetta il diploma dell’istituto magistrale che gli permetterà di fare il maestro, l’insegnante.
Sciascia al cinema
Il Cinema che per un lungo periodo della sua vita ha tanto amato lo ha sicuramente riamato. Dalle sue opere sono stati tratti moltissimi film, tutti di gran successo culturale. Famosi registi del suo tempo si impegnarono: Elio Petri “A ciascuno il suo” (1967) e “Todo modo” (1976); Damiano Damiani “Il giorno della civetta”, 1968; Francesco Rosi “Cadaveri eccellenti” (1976); Gianni Amelio “Porte aperte” (1990) e altri ancora.
Un giudizio amaro
Un disagio
Ma ancor prima che ancor tutto questo succedesse, e naturalmente con il suo assenso, nel 1965, in una nota dedicata a Antonioni, Bergman, Pasolini nell’incipit scriveva: “è da un paio d’anni che frequento pochissimo il cinema. E le rare volte che ci capito, quasi mai resisto a vedere un film per intero, perché sono arrivato ormai alla convinzione che non c’è film, per quanto buono, che valga un libro anche mediocre”.
Manifestazione di un disagio che non impedirà nulla di quello che come abbiamo visto, succederà successivamente a quella data che meriterebbe certo una riflessione, che ad oggi mi pare non sia stata mai fatta.
Io sto scrivendo dopo aver letto il bel libro curato da Paolo Squillancioti, per le edizioni Adelphi ed intitolato “Questo non è un racconto”. Dalla sua nota al testo ricavo che Leonardo Sciascia ha scritto un testo intitolato “Requiem per il cinema” che purtroppo non ho ancora letto dove, come scrive P. Squillanciotti, Leonardo Sciascia nel 1989, al termine della parabola e sull’onda dell’emozione suscitata dal “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore, traccia un bilancio definitivo ed impietoso di un cinema da cui da tempo si sentiva tradito, perché ormai “diventato altra cosa di cui, in effetti, non c’era bisogno se non per masse miseramente bisognose. È diventato parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia”.
Ricordi e surrealismo
Giudizio molto amaro di una cosa “molto amata”. Lo ripeto, manifestazione di un disagio che come abbiamo visto si è protratto per anni che però mai cancella il passato, né gli aveva impedito di scrivere nel 1981 una nota di commovente e surreale ricordo, di uno dei grandi registi del novecento, il francese René Clair in occasione della sua morte appena avvenuta.
Di René Clair, Leonardo Sciascia, amava tutto ma soprattuto il film “Entr’act” del 1925, girato sui tetti delle case in centro a Parigi, rivisto molte volte. Un film surreale, bizzarro o come scrive Leonardo Sciascia “film di leggera fantasia, di felice ritmo, di surreale libertà e in cui un funerale diviene, appunto, fantasia e ritmo, fuoco d’artificio di azioni che scattano una dall’altra con surreale consequenzialità”. E aggiungo io i cui protagonisti allora praticamente sconosciuti, come Satie, Picabia, Duchamp diventeranno protagonisti fondamentali della storia culturale del secolo scorso.
Sciascia, la scrittura e la politica
Ecco, quest’amore per René Clair e per il film “Entr’act” ci fa scoprire un’altra delle peculiarità del nostro autore. La sua straordinaria curiosità verso le arti di cui spesso e con grande competenza si occuperà. Leonardo Sciascia fu soprattutto uno scrittore di romanzi, di racconti e fu un saggista. Nei suoi scritti ogni parola ti viene incontro diritta, forte, limpida.
Ti colpisce leggendola come la pioggia di primavera che scende e ti lascia sempre inzuppato d’acqua, malgrado tutti i tentativi che fai di uscirne indenne. Questo succede sia quando ti racconta, appunto alla sua maniera un fatto di cronaca delinquenziale, sia quando liberamente, si fa per dire, inventa storie di mafia, sia quando ti racconta fatti e misfatti della società e della politica.
Le esperienze politiche
Il suo linguaggio non è mai metaforico, la sua opera nella sua interezza secondo me invece lo è. Ho scritto che era culturalmente un comunista ma credo non sia mai stato iscritto al partito comunista italiano. Si occupò è vero di politica attiva e con questo partito fu eletto al consiglio comunale di Palermo, come indipendente, nel biennio 1975-1977.
Fu eletto in Parlamento sempre come indipendente nelle file del partito radicale nell’ottava legislatura e fu anche deputato europeo. Nella sua elezione a consigliere comunale nel comune di Palermo raccolse un alto numero di preferenze, fu secondo solo ad Achille Occhetto, allora segretario generale del partito comunista italiano, precedendo però un altro illustre candidato, Renato Guttuso.
Riporto questa informazione per evidenziare, impietosamente, un confronto con i candidati allo stesso comune di questi ultimi decenni. Povera Sicilia verrebbe da dire!!! Ho scritto che la sua autorevolezza derivava da un’attitudine naturale ed anche da alcune peculiarità naturali. Citavo tra queste la coerenza che può declinarsi in molti aspetti. Ne vorrei evidenziare uno che non fu affatto marginale. È stato un fatto certamente raro, per uno della sua generazione e del suo livello, inusuale ma Leonardo Sciascia non lasciò mai la Sicilia.
Tra Palermo e Racalmuto
La sua prima casa restò sempre quella di Racalmuto, la sua seconda casa a Palermo, dove solo apparentemente si trasferì per aiutare le figlie negli studi. Lui che aveva scritto più ampiamente di tutti della mafia, si trasferisce nella città dove più massicciamente il potere della mafia viene esercitato, continua a scrivere le sue storie, scrive per riviste e giornali, si impegna come abbiamo detto come indipendente con la politica e soprattutto contribuisce in modo importante alla crescita della casa editrice Sellerio che presto diventerà la più importante casa editrice siciliana e una delle più qualificate dell’intero paese. Coerenza siciliana e coraggio siciliano sono due delle caratteristiche peculiari per essere autorevoli.
“…quella che diciamo l’umanità (..) la divido in cinque categorie…”
L’ultima parte di questo mio scritto la voglio dedicare alla naturale predisposizione, che è di ogni siciliano colto, di essere anche un antropologo. Molti hanno scritto, Luigi Pirandello addirittura due libri specifici all’interno di un’intera opera dedicata all’argomento. I due libri come tutti sappiamo sono “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” (1925) e “Uno, nessuno, centomila” (1926). Giuseppe Tommasi di Lampedusa in un passaggio che è divenuto virale del suo romanzo “Il gattopardo” fa dire al principe di Salina, Fabrizio Corbera, suo protagonista principale, cose di un pessimismo cosmico sulla natura del popolo siciliano. Leonardo Sciascia non esprime pessimismo e non parla solo dei siciliani. Parla dell’homo sapiens. Lo giudica, lo classifica.
Gli uomini ci dice, anzi lo fa dire a don Mariano, protagonista mafioso del suo romanzo “Il giorno della civetta” che così sentenziava: “gli uomini si dividono in uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglia in culo e quaquaraquà!”. Le prime tre categorie sono il risultato di processi naturali e poco possiamo farci. Gli ultimi appellativi sono invece un insulto feroce, definitivo e inappellabile. E sono le due facce della stessa medaglia.
Il quinto gruppo
Per i “pigliainculo”, epiteto che sicuramente il nostro autore ha ben valutato prima di scriverlo, si potrebbe anche accusare Leonardo Sciascia di omofobia, ma sarebbe completamente sbagliato e totalmente improprio. Per l’autore, io credo, si trattava di mettere a fuoco quella parte di umanità, e purtroppo ce ne sono moltissimi, che a causa di una loro spiccata inclinazione all’accattonaggio, all’asservimento, concetti che si possono declinare in mille forme diverse, hanno rinunciato a pensare ed agire con la propria testa, tendono ad annullare se stessi, preferiscono vivere supinamente al servizio di altri.
Viviamo tempi difficili, e il prof. Luciano Canfora ci ha appena ricordato che il grande storico dell’epoca romana Tacito, già allora scriveva che le servitù spontanee, quelle neanche richieste dai padroni, dai potenti, sono sempre le peggiori. L’ultimo appellativo “quaquaraquà” Non richiede commenti perché da tempo sappiamo tutto sugli zombie viventi
Una partnerschip con la rivista LA SCUOLA DELLE COSE diretta da Gino di Maggio