“E la gente rimase a casa”. È questo l’incipit di una poesia che in questo periodo di quarantena e lotta alla pandemia è diventata virale. Fa un certo effetto usare questo termine oggi, eppure nessun altro rende meglio l’idea della capillarità e della rapidità con cui i versi di Kitty O’Meara si sono diffusi (suo malgrado) da un capo all’altro del globo. Essi ci ricordano come la poesia, e l’arte in generale, siano antidoti senza tempo al grigiore della realtà.
L’autrice inizia descrivendo la condizione oggettiva che ha accomunato e accomuna la maggior parte delle persone che si trovano nei paesi colpiti dall’epidemia: lo stare a casa. Stare a casa è il momento per leggere, riposarsi, dedicarsi all’arte e al gioco. Ma anche per fare esercizi e ballare. Dunque, per “nutrire” il corpo e soprattutto lo spirito. Per riscoprire la bellezza che si annida nell’ordinario, la meraviglia delle piccole cose senza un fine eppure ricche di senso. Qualcuno medita, qualcun altro prega. In questo tempo sospeso, la gente si ferma e ascolta. Due gesti a cui non si è molto avvezzi in tempi in cui tutti corrono e tutti vogliono parlare, ma pochi sanno ascoltare. E adesso ce ne sono di cose da ascoltare: le norme imposte dai governi, le parole degli scienziati, i bilanci delle vittime (ahimè). Ma anche il silenzio, o il cinguettio degli uccelli normalmente soffocato dal frastuono della quotidianità. Se stessi, infine, con le proprie paure e i propri limiti. E chissà che qualcuno non incontri “la propria ombra”.
Ascoltando e ascoltandosi, prosegue l’autrice dei versi, la gente diventa consapevole e comincia “a pensare in modo differente”. Consapevole di cosa? Lo ha riassunto benissimo il papa nell’omelia che ha pronunciato lo scorso 27 marzo nella cornice surreale di una piazza San Pietro deserta: “Sentendoci forti e capaci di tutto, abbiamo proseguito imperterriti pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. Ci siamo resi conto di quanto insostenibile sia un sistema sociale ed economico fondato sull’idea del progresso a tutti i costi. Sull’illusione che il progresso materiale ed economico sia la panacea universale a tutti i problemi. Sulla trasformazione di ogni desiderio in un bisogno essenziale. E tutti e tutto, natura compresa, diventano un mezzo funzionale alla produttività. Di questo modello di sviluppo, come ha detto Claudio Risè, “l’arrivo del virus non è un bizzarro incidente ma un aspetto strutturale”. Perturbando ecosistemi e distruggendo habitat, lo abbiamo sentito da diversi scienziati, si è creato un profondo squilibrio tra uomo e natura e si sono create condizioni estremamente favorevoli alla diffusione del virus.
Ecco che, da questa consapevolezza, la scrittrice immagina una guarigione totale: di noi stessi dall’epidemia, prima di tutto, ma anche dall’indifferenza e dall’ignoranza, e da modi di vivere pericolosi. Guarigione non solo nostra, ma della natura e del mondo tutto. E quando guarirono, le persone “fecero nuove scelte / e crearono nuovi modi di vivere”: si prospetta un mondo dove la gente rilegga le priorità e cambi stili di vita e modelli di pensiero, dando vita a un profondo rinnovamento antropologico-culturale-sociale. Un nuovo umanesimo meno antropocentrico: ecco il cambiamento che la scrittrice, a distanza di tempo (tutta la poesia è scritta al passato remoto), evoca nei versi finali. Trasformandolo nella ferma certezza di chi, custode delle memorie della razza umana, scrive una lettera dal futuro raccontando la guarigione dell’umanità.