La tragica perdita di Michael Sorkin, caro amico e voce preminente per il design urbano sulla scena dell’architettura internazionale, è ancora un’idea che non riesco ad accettare. A 87 anni, ho pensato che sarei andato via molto tempo prima che questo accadesse. Non avevo quindi messo in conto di provare lo shock e la disperazione per una simile realtà. Anche se ancora in questa condizione emotiva e psicologica, cercherò di dare forma alla mia ammirazione per le sue idee e la profondità dei sentimenti per la nostra amicizia.
Il lavoro di Michael nella critica del design, nella teoria, nella storia, nella pianificazione e nel futuro del paesaggio urbano è così inclusivo e visionario che è diventato un’istituzione indelebile nel pensiero globale su questi argomenti. È uno di quei rari esempi, in cui la sua persona e la disciplina diventano sinonimi. Ad esempio, diventa impossibile pensare alle condizioni dell’architettura e dell’urbanistica oggi, senza tenere conto delle idee di Michael, punti cardine di riferimento e fari di saggezza. Questo potere è l’essenza della sua importanza; ma anche il motivo per cui la sua assenza diventa inconcepibile.
I frutti infiniti della sua creatività rimarranno negli archivi mondiali per nutrire le generazioni future. Inoltre, c’è da considerare una parte enorme del valore comunicativo del lavoro di Michael, cioè la sua partecipazione ai dialoghi pubblici.
In questo senso, era come un grande interprete musicale che ha fatto meravigliose registrazioni. Ma l’intera misura dei suoi talenti è stata la migliore esperienza in formato concerto. La combinazione di Michael tra pensatore rivoluzionario e oratore pubblico esperto è, dal mio punto di vista, impareggiabile nell’architettura.
Come amici, colleghi professionisti e scettici di carriera in merito a tutte le manifestazioni dell’ortodossia progettuale, Michael e io abbiamo avuto un serbatoio senza fondo di problemi artistici e di design da discutere durante i nostri trenta o più anni di dialogo.
Innanzi tutto, ci siamo entrambi impegnati in soluzioni per il pubblico dominio e su come accogliere al meglio l’interazione delle persone nel paesaggio urbano. Spesso così commentavo quando presentavo le nostre apparizioni sui simposi; “Michael si è occupato dei problemi più grandi nella progettazione urbana e io invece ho seguito soluzioni per le piccole cose sotto i piedi delle persone”. Questo era invariabilmente lo scenario, durante questi nostri confronti. Michael avrebbe coperto i piani generali, le strategie civiche, l’economia e le infrastrutture e poi io avrei inserito idee per le strutture pedonali di passerelle, posti a sedere, piazze, giardini e spazi di gioco.
Se io potevo desistere dal presentare materiale visivo, l’eloquenza verbale di Michael rubava sempre la scena. Ricordo tante lezioni e conferenze in cui ero così affascinato dalla performance di Michael che la mia memoria falliva quando era il mio turno di parlare. Era l’ultimo “atto impossibile da seguire” su qualsiasi podio. Michael e io abbiamo avuto quel tipo di amicizia nutritiva nella quale ritrovarci nell’esplosione di discorso su un argomento caldo della giornata, oppure potevamo sederci tranquillamente a cena e provare il conforto rinvigorente di non dire nulla.
Come apice del talento di Michael, ho apprezzato il suo acuto spirito e la sua capacità di infilzare le pomposità della nostra professione e politica del giorno. Questo umorismo di tendenza era invariabilmente teso verso un bersaglio; ma sempre articolato in modo da ispirare l’opposizione a ripensare un problema. . . mai crudele, irrispettoso o sprezzante. È particolarmente ironico che Michael Sorkin, uno dei principali sostenitori dell’interazione tra città e persone, sia morto durante un periodo di pandemia globale, quando milioni di abitanti delle città si sono ritirati in isolamento protettivo. Per questo motivo, desidero concludere il mio tributo con una riflessione sul suo lavoro tratta dal mio libro del 2000 sulla “Green Architecture”.
“Michael Sorkin può ben essere visto come un visionario appassionato. Ha capito che il brusio universale delle persone che vivono nel cyberspazio e comunicano principalmente attraverso le lunghezze d’onda globali è ormai una realtà, un utilissimo set di strumenti che presto diventerà routine. A questo proposito, i computer sono proprio come ogni altra tecnologia esotica che ha alimentato iperbolicamente la fantascienza e si è trasformata persino in curiosità nostalgiche nelle aste di antiquariato. Nel progettare pensando alla città futura, ha riconosciuto che la gente è stanca di guardare tutto il giorno gli schermi digitali e i sit-com durante la notte. E allora perché mai dovrebbero volere che il loro vicinato sia un’altra estensione della realtà virtuale? Il fatto è che le persone hanno bisogno e apprezzano più che mai l’interazione a causa della tecnologia informatica. Nella città di Sorkin, camminano, parlano, si siedono sugli scogli, curano i loro giardini e respirano aria più pulita. Preservare questa realtà auspicabile è l’obiettivo fondamentale della sostenibilità e la principale sfida di progettazione urbana per il futuro”.
(da James Wines, Green Architecture, Taschen, 2000)
MICHAEL SORKIN è nato a Washington nel 1948 e morto a New York il 26 marzo 2020. Dopo la laurea all’università di Chicago, nel 1970, è ammesso a un master di architettura presso il Massachusetts Institute of Technology. I suoi interessi hanno insistito nella città, l’architettura, storia, critica, teoria, sostenibilità e nella dimensione green. Ha collaborato a vari giornali e riviste. Lascia una ineludibile eredità in fatto di teoria e progettazione e anche come educatore, per esempio presso la City University of New York come Distinguished Professor di Architettura. Molte pubblicazioni al suo attivo.