Aldo Gerbino è un umanista a tutto tondo, calatosi da vari decenni dalle nebbie padane (è nato a Milano) agli abbagli naturalistici e culturali di Palermo. Per due ragioni a tutto tondo: in quanto uomo di scienze (professore emerito in ambito medico) e letterato di impronta profondamente classica (a cominciare dai lirici greci). Le sue poesie – originalissime per struttura compositiva, linguaggio e lessico – fremono (e fanno fremere) di tensioni emotive anche se queste ultime, per sapienza scrittoria, sono rattenute da vocaboli che spesso appartengono in linea di massima alle scienze naturali (gorgonie, celenterati, cipree, ossidiana). Ma non si tratta di citazioni dotte fine a se stesse. Intanto perché questi elementi sono parte integrante e inscindibile del racconto poetico, fino a determinarlo.
E proprio per questo, aggiungiamo, queste parole-cose dotte costituiscono dei puntelli di concretezza (un contributo del Gerbino scienziato). Grazie ad essi il volo della fantasia plana sul concreto, sicché la fantasia, fattasi immaginazione, si insinua vividamente nella nostra mente e nel nostro stato d’animo. Questi termini scientifici sul piano strutturale presentano una piccola analogia con l’uso degli etimi che è proprio della poesia di Guido Ballo il quale, al contrario di Aldo Gerbino, è nato sull’Etna ed è vissuto a Milano. Questi termini scientifici danno terreno concreto al racconto poetico di Gerbino.
Concretezza mai statica, ma basata, questo sì, sull’alternanza di arsi e tesi che Policleto diede ai suoi kouroi o guerrieri. Di un simile equilibrio è intessuta la solida costruzione del verso di Gerbino. E l’improvviso imporsi di un suono che pare astratto (trattandosi di termini scientifici inusuali) conferisce alla sua poesia una certa magica seduzione quale è propria del dannunziano Poema Paradisiaco. Ma quando questo suono gerbiniano (insisto perché la musicalità contraddistingue la versificazione del poeta) fa cenno ad una essenziale tragedia o cruda realtà, lì il vate pescarese lascia il posto a sciabolate di tipo verghiano o alle sinestesie proprie della tragedia greca in un clima politeistico di cui senti gli effetti anche se non ti imbatti nelle varie divinità e nelle loro missioni protettive o aggressive.
E così senti “Suoni aspri di pelle lacerata” o “Il fuoco ragghiante del vulcano” o “L’annaspare di mani dalle rotte migratorie” o “chiglie picee d’ossidiana, per notturni sciami di cipree”. O trovi magari momenti di atmosfere spettrali: “Sarà/ ‘l’isola dell’albero’ a spargere liquori lunari, gorgonie/ tra labbra di amanti”. E il lettore si smarrisce beatamente come trasportato da atmosfere omeriche aggiornate.
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Ombre lucenti di gru cenerine. Eliche
a Enzo, a Elsa
a.
In acque profonde nasconderemo i nostri cuori
e, con essi, le anime di quanti ci hanno amato.
Lasceremo che la nostra stessa anima scivoli
nell’imbuto del mare appena chiuso da rocce,
sfiorando il boschetto di attinie prima di giungere
alla casa del dio battuta dalle onde. Ora gridiamo
tra cammini silenti, per oscurità trafitte da
luminescenze, da abbagli di fanciulle mute.
Nessun’altra voce sembra lambirci, ma tenui
lame incendiate da luci mortali. Coscienti
nell’immobilità di un rapimento, ecco gli occhi
del figlio, il furore di un verso antico, il cielo steso
sul pacato dorso mediterraneo, mentre s’avverte
un filo tagliente alla gola, sulle piaghe.
b.
Abbandoneremo il capo su fossili di brachiopodi,
di celenterati, tra suoni aspri di pelle lacerata.
Al tocco dei coralli, il fuoco rugghiante del vulcano
ci assicura come ogni cosa sia destinata a mutare.
Sarà lo stupore a bruciare ogni lacrima, a sollevare
gli occhi sulla superficie in cui appare l’esteso rizoma
solcato da vele rossastre, da corpi agili di nuotatrici,
e l’annaspare di mani dalle rotte migratorie, mentre
galleggiano i battelli dei troppi ‘Caronte’ tra profumi
di fiori eoliani giunti dall’arcipelago, e ombre lucenti
di gru cenerine. Gravati da ostili imbarcazioni giunge,
macchiato di sangue, il sibilo stridulo delle eliche. Sarà
l’‘isola dell’albero’ a spargere liquori lunari, gorgonie
tra labbra di amanti, su vagoli corpi immemori: per
chiglie picee d’ossidiana, per notturni sciami di cipree.
Palermo-Ruvo di Puglia, autunno del 2022
Ogni luce
Ogni luce ha la sua natura. Il suo pozzo d’origine, la sua creta.
Così la luce dei suoi occhi di fanciulla illuminava la stanza.
Quella stanza erbosa posta sotto un cielo eolico in cui
l’arcipelago, frantumato e lucido di sole, di fuoco e
con pupille d’ossidiana, dice a noi tutti fanciulli che sempre
qualcosa si muove tra le pieghe del velluto denso della notte.
Sì, la luce ha, per ciascuno di noi, la sua natura, il suo sguardo,
la sua protezione, il suo svelamento.
Andando per la strada sotto la collina dove corpi di padri,
madri, sorelle, giacciono ormai incolumi, ecco luci
di occhi acquosi d’una minuscola volpe da poco nata, agile
e mutevole che riflette il mondo e dice del motore
della sua esistenza, proprio al lato di una curva stretta
in cui s’impigliano le vite dei passanti.
Luce degli occhi, altri occhi, quelli che ti colgono nel sonno,
quelli che ti trafiggono al risveglio, per poi leggermente
travasare nella stanza prossima del sogno, aperta al desiderio
del racconto di ciò che un tempo, prima forse della tua nascita,
apparivano come lumi sporgenti dagli zigomi, lumi di quanti
ci hanno preceduti, e che ancora sembra che ci amino, di un amore
che scorre sui fili di un raggio, un frantume, uno screzio di bagliori.
Dello stesso autore: Due note sulla poesia Lupin di Aldo Gerbino