Forse un giorno tornerò alla mia collina
tra ulivi e mandorli cinerini nel sole d’estate,
ai braccianti, agli artigiani
fra l’odore del basilico e garofani rossi
[Biagia Marniti, da “Terra di Puglia” in Più forte è la vita, 1957]
a Nino, a Rita
Nella diurna liquidità si disfa il calcare dei palazzi,
vi galleggia la mitria di Biagio di Sebaste e il romanico
fiorire delle chiese. È tenerezza cruda quella
che indossiamo, tra amici, mentre il corpo di Talos
cinge il cratere attico con la sua cieca furia. Poi,
distratti dall’inciampo di un fanciullo sul taglio
della piazza, annusiamo i refoli colati dalle Murge.
Così devastata, così metafisica la bruma restituisce
cardoncelli, spinosi cespi, dolcezze selvatiche
sciolte nel cuore delle doline. Eppure, il battito
dei lapicidi trasuda in grumi da ogni muro,
dal tiglio secco di fiori, dai versi di Biagia,
dalle mandorle dolciastre stese al sole, dal tocco
fondo di campane agli orli di novelle ‘odalische’
sotto la statua glabra dell’anatomista.
β
L’amico mi dice del suo lavoro, del miope fragore
del prossimo, mentre assaggiamo la tiella, sfogliamo
lettere inevase, fabulas. In tal modo, Nino coltiva
il volto del padre, invitandomi a leggere, con chiarezza,
la guerra, i solchi arati sulla sua faccia: segni sabbiosi,
linee di prigioni, scavi di trincee, grida, sibili di aerei,
sangue sulle pietre e l’unto della morte. Ora i nostri
visi sembrano raggiunti da ombre di lontani conflitti,
già altri feriscono con l’odio le nostre case. In questo
meriggio ruvestino, tra pasticciotti leccesi e mesti versi
di Orazio, fa ritorno d’improvviso (è sua consuetudine)
anche mio padre. Fermo, in un bosco di Morus alba,
m’invia, macchiato da un sorriso, l’impalpabile cenno
di un saluto; porta con sé una testuggine palustre
in una cesta ricolma di funghi dei Nèbrodi, aculei,
piume, nocciole, vasetti con creme lattee, sparsi bupresti
e pettini di ferro, lacrime appena raccolte dallo Stige.
Ruvo di Puglia, 7 ottobre del 2022