Chi vince la grande sfida del balletto contemporaneo, vale a dire delle creazioni dove il coreografo/la coreografa sceglie, o accetta per commissione, la musica, l’argomento, il team di danzatori e i collaboratori alla sua opera di danza?
I casi più recenti parlano chiaro, se si guarda ai teatri e alle compagnie delle Fondazioni Liriche o Coreutiche italiane. Con un cenno a Parigi, dove all’Opéra si programma molta più danza che altrove e si azzardano molte più sfide.
Teatro alla Scala
Alla Scala la serata contemporanea-trittico Smith/Léon e Lightfoot/Valastro ha mostrato tutta la difficoltà di raccontare contenuti ambiziosi con i mezzi della danza.
Se Isadora Duncan ai primi del secolo scorso si rifiutava di danzare su musica da balletto, muovendosi liberamente nei suoi veli e a piedi nudi su Chopin, Beethoven, Schubert, Gluck, Wagner, oggi si prende ispirazione da temi colti, introspettivi o letterari, per svolgerli con la concretezza materiale del corpo danzante, nelle sue tecniche ed estetiche.
Garrett Smith, nato a Salt Lake City, già sostenuto da Baryshnikov a New York – la caccia a nuovi talenti è d’obbligo – chiamato a San Pietroburgo e a Helsinki, ha portato a Milano Reveal, su musica di Phil Glass (Double Concerto for Violin, Cello and Orchestra; Tirol Concerto for Piano and Orchestra, insoliti per accompagnare la danza, che da tempo predilige il minimalismo ripetitivo del compositore USA), nato allo Houston Ballet nel 2015, sulla dualità di maschile e femminile, di classico e non classico, mostrando l’intimità e la vulnerabilità. Argomenti del giorno in tutta la danza contemporanea europea.
Un bel trio, per due uomini porteurs e una donna acrobatica, e un bel duo maschile grintoso, rimangono impressi nel tessuto di un lavoro che, al di là di qualche accenno alla possibilità che sia la ballerina a guidare-reggere il ballerino, si fa ricordare per la scena piena di fumi illuminati da Michael Mazzola e per i panni neri degli interpreti firmati da Monica Guerra.
Fumo abbondante anche per Memento di Simone Valastro, italiano di carriera parigina all’Opéra, chiamato a Roma da Eleonora Abbagnato e a Milano da Manuel Legris, anche loro cresciuti a suo tempo nella “maison”, orgoglio francese- caput mundi del balletto.
Dopo il precedente di un duetto, Arbakkinn, presentato a Milano nel 2021, l’organico della novità firmata Valastro su musica di Max Richter e David Lang e sulla suggestione del detto latino della liturgia cattolica delle Ceneri Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris, passa a più di trenta elementi, che agiscono a falange in scena e su due passerelle per salire e scendere ciclicamente dal golfo mistico e dal retropalco – scene e costumi in tinta neutra di Thomas Mika – rimandando necessariamente ai grandi insiemi che Crystal Pite, dotata di speciale talento per questo genere coreografico, all’unisono e in contrappunto.
Skew-Whiff (1996) di Paul Footlight e Sol Léon, coppia erede di Jiri Kylián al Nederlands Dans Theater, sull’ouverture della Gazza ladra di Rossini, fa da cuscinetto ilare, con la sua “parodia” dell’incalzare ritmico della musica per tre ragazzi e una ragazza: un cuscinetto di spirito leggero, necessario tra due brani “pesanti”.
Certo Blake Works di William Forsythe, montato alla Scala nel maggio 2023, senza un tema specifico, tra sbarra, video e “danza danzata” (“il vocabolario classico non invecchia; è la letteratura del balletto a invecchiare; la tecnica è la regola; la coreografia è l’eccezione”, dice il coreografo americano), è risultato ben più potente, più risolto, più gratificante per la compagnia milanese, oggi giovane, duttile e ottima.
Sta di fatto che – i motivi possono essere molti- le creazioni del balletto in casa Scala non sono diventate repertorio né hanno viaggiato per il mondo; l’elenco comprende: Il Grande Gatsby di André Prokovsky su musica di Gershwin (1999), L’altra metà del cielo di Martha Clarke su canzoni di Vasco Rossi (2011), Il giardino degli amanti di Massimiliano Volpini su Mozart (2016); tutti balletti narrativi.
Pure narrativo, da La ragazza che non voleva morire di Emmanuelle de Villepin, è Madina (2021 e 2024) con la coreografia di Mauro Bigonzetti, autore di vasta esperienza su “titoli” forti (la trilogia dantesca Comoedia, Romeo & Juliet, Certe notti sulle canzoni di Ligabue) all’Aterballetto, di cui fu direttore dal 1997 per dieci anni e poi autore residente fino al 2012.
Ma la longevità di questo balletto, appena ripreso al teatro Piermarini, oltre alla storia tragicamente attuale di una kamikaze che rifiuta un destino di morte imposto, è dovuta soprattutto alla musica di Fabio Vacchi, che vanta molti riconoscimenti per la sua vasta attività dalla Biennale di Venezia al Maggio fiorentino alle ribalte internazionali, da Salisburgo a Vienna, figlio delle Avanguardie del Novecento, ma alieno dalle sperimentazioni radicali contro la tradizione.
Va ricordato, per contro, che la creazione 2013-2014 commissionata da Makar Vaziev, allora direttore del ballo milanese, a Alexei Ratmansky, coreografo top class nel mondo, Opera, su musica originale di Leonid Desyatnikov, con testi di Metastasio e Goldoni, non ha avuto riprese.
Opera di Roma
Dalla sponda dell’Opera di Roma, sul fronte del balletto contemporaneo, si risponde con due brani di Benjamin Millepied, di formazione francese, di curriculum americano, fino a diventare principal del New York City Ballet, per breve tempo direttore all’Opéra di Parigi e poi alla testa del suo Los Angeles Project, oggi rifondato come PDP nella Ville Lumière, dove è tornato.
Il programma Millepied che Eleonora Abbagnato, direttrice della compagnia, ha voluto per i suoi ballerini dell’Opera di Roma al Parco della Musica – festival Equilibrio, ne ha mostrato la bella capacità di sintesi in un mix originale di input top, ovvero Balanchine, Robbins, Childs, un Gotha statunintense, filtrato nel disegno coreografico puro di Closer/On the Other Side
Closer del 2006 su musica di Phil Glass, eseguita al piano da Lucio Perotti, e in un décor di luci limpide a firma Masha Tsimring, dove tutta la danza è in piena vista, senza filtri decorativo-drammatici, è un magnifico, arduo, passo a due post-classico, con punte, inciso frame per frame nello spazio vuoto; le combinazioni del fraseggio sorprendono, perché da un attacco che fa immaginare un seguito già noto, zampillano invece altre possibilità, inattese, eleganti, organiche, senza forzature ad effetto.
On the Other Side del 2016, su più musiche ancora di Phil Glass, in costumi quotidiani colorati di Camille Assaf, mostra l’attitudine rilassata, paritaria tra maschi e femmine, e matematicamente esatta nel tracciato di tanti ingressi, uscite, replay fronte-retro, riconfigurazioni a due, a tre e in ogni altro “dosaggio” perfettamente controllato degli otto interpreti in scena, che lasciano appena trasparire umori e sentimenti nella dinamica pulita e chiara di questo piccolo gioiello.
Al Teatro Costanzi è poi andato in scena un Trittico contemporaneo, affidato a Patrick De Bana, tedesco-nigeriano, già nell’Hamburg Ballet e con Maurice Béjart negli anni 80, Juliano Nunes (1990), brasiliano di carriera tedesca, William Forsythe (1949), genio newyorkese fiorito a Francoforte e ora di nuovo negli USA. Tutto su musica registrata.
Per Windgames su musica di Ciaikovsky (Concerto per Violino e Orchestra in Re maggiore op. 35) De Bana concentra in un atto la vicenda romantica di un amore travagliato, allusiva all’Onegin di Pushkin, disegnando una sorta di parafrasi-commento della musica, talvolta impossibile da inseguire per la velocità esecutiva dell’Orchestra di casa. L’amizione non corrisponde al risultato.
Women di Nunes, sulla musica ariosa di Ezio Bosso (Music for Weather Elements. Thunders and Lightnings), novità assoluta, è tutto per le donne, con punte e calze rosse, a grandi insiemi dinamici, per inanellare poi tanti passi a due bellissimi, senza lift, ma con tutti gli elementi usuali nei duetti uomo-donna; una riuscita nel gioco di energie femminili eleganti.
Playlist (track I e II) di Forsythe è la gioia del virtuosismo classico puro per gli uomini, sul funk di Peven Everett (Surely Shorty) e Lion Babe (Impossible/JAX Jones remix). Il pubblico partecipa battendo le mani, rapito dalle cabriole, dai brisé volé, dai salti vigorosi della falange maschile che si gode il sound pop per scattare e volare alto. Anche qui, come per Women, costumi essenziali tutti uguali, prugna e turchini.
Chiusura perfetta, di bravura felice.
Aterballetto
Aterballetto-Fondazione Nazionale della Danza, con un bel gruppo rinnovato e carico di energia, ha debuttato con la novità Rhapsody in blue della coppia Iratxe Ansa e Igor Bacovich accanto ai già comprovati Yeled (bambino) dell’israeliano Eyal Dadon, autore anche della musica, e Secus di Ohad Naharin, al top della danza nel suo paese, da Tel Aviv con una proiezione planetaria.
Una serata che solo in Yeled tende a raccontare piccole storie infantili, mentre Secus, su un vivace collage di elementi sonori con elementi folk-pop, è un gioco di azioni ordinarie reimpaginate, ciascuna con un suo senso intimo, costruendo un collage di umanità enigmatico e chiaro al tempo stesso, così come i gesti della folla per strada.
La novità Rhapsody in blue è ciò che serviva all’Aterballetto per un’iniezione di bella danza, pura danza, in perfetta simbiosi con una grande musica, nota, amata, potente, quindi rischiosa, in quanto bastante a se stessa- che è stata definita la “risposta americana al Sacre du Printemps di Igor Stravinsky”. Il lavoro a quattro mani è una riuscita sull’esecuzione vigorosa della Slovak Philarmonic Orchestra che scandisce i tempi, esalta le sincopi, e sospinge i ballerini in alto, in forme di piramidi, di onde, di lava in eruzione, on the top of the music, con intonazione perfetta, zampillante. La musica si vede, tradotta nell’articolazione logica, ampia, dilatata, leggibile, di una danza sinceramente, giustamente, sospinta da ritmo e melodia.
A Parigi
L’Opéra non di rado ha commissionato per la sua compagnia di balletto nuovi lavori a coreografi di mano contemporanea; lavori fruttuosi che hanno poi formato un catalogo di repertorio, con felici riallestimenti. Tre esempi: Le Parc di Angelin Preljocaj (1994) su musica di Mozart ed elettronica di Goran Vejvoda, ripreso nel 2021 e ora anche al Bayerisches Stattsballett, Signes di Carolyn Carlson (1997), su musica di René Aubry, rivisto a Palais Garnier nel 2023, The Season’s Canon di Crystal Pite (2016), su Vivaldi-Max Richter, pure rimontato nel 2023.
Dati che inducono a riflettere sui criteri di scelta degli artisti-creatori di balletto contemporaneo tra i 70 e i 30 anni, da invitare, e su quali basi e in quali combinazioni di programmi.
Raccontare versus danzare
Comporre un programma di balletto contemporaneo è certo un’impresa complessa, da ogni punto di vista, produttivo oltre che artistico, ma inevitabilmente il pensiero va a Sergej Diaghilev, “impresario” e capocomico dei Ballets Russes, che riempiva fogli di appunti vagliando le varie combinazioni con cui cucire una serata, badando all’armonia tra i brani, al luogo, al pubblico. Certo i suoi famosi pezzi brevi erano soprattutto narrativi, ma in forme nuove, sintetiche, riproducibili, su musiche alte, con décor d’autore; la sua mente registica nelle scelte dei programmi fu spesso infallibile. Ai giorni nostri la danza, quando è nemica del pensiero astratto, nella convinzione che non basti a se stessa, senza racconti illustrativi ad abbellirla e giustificarla, raramente produce buoni frutti.
Bisognerà tornare, per analogia, al “Bello musicale” di Eduard Hanslick, che a metà Ottocento rivendicava la necessità di una considerazione “estetica” e non psicologica della musica, che colga e valorizzi la specifica “bellezza musicale”, che consiste nell’universo dei suoni e nella loro dinamica articolazione artistica come “forme sonore in movimento” o “movimento in movimento”.
Per la danza è esattamente lo stesso.