Al Museo del Presente di Rende, in Calabria, è in corso, fino al 13 luglio, la mostra “Dare forma – identità e visioni/Opere e pensieri”. Essa è imperniata sull’ultimo numero della rivista “Abitacolo, Forme e linguaggi del contemporaneo”, giunta al suo ventesimo anno di vita. A curare la rivista e l’omonimo Istituto di ricerca, nato nel 1995, sono Anna Maria Terremoto e Fernando Miglietta, architetto e teorico dagli interessi transdisciplinari. Innovativa ed efficace la formula messa a fuoco da Miglietta: l’individuazione di un tema generale su cui far scrivere diversi intellettuali (architetti, filosofi, scrittori, antropologi, ecc.), i cui contributi sono illustrati da artisti. Queste opere visive sono poi oggetto di mostre.
Instancabile organizzatore culturale, Miglietta negli anni ha arricchito il comitato scientifico dell’Istituto di ricerca con figure di rinomanza mondiale (Gillo Dorfles, Alessandro Mendini, Bruno Munari, Mimmo Rotella, Massimiliano Fuksas, ecc.). Questo sulla base di un confronto aperto e costruttivo con ciascuno di quegli amici. Il risultato è una polifonia che moltiplica le prospettive e le dimensioni del tema proposto.
Per esempio, Vittorio Gregotti – che ad “Abitacolo” aveva offerto uno dei suoi ultimi scritti – cerca di definire l’identità dell’architettura italiana; Margherita Petranzan ragiona sul rapporto tra identità e relazioni che unisce architettura e linguaggio; Michelangelo Pistoletto fornisce una base iconica al tema, attraverso un nuovo segno d’infinito (triplice, e non duplice, che unisce l’elemento della stabilità e quello del continuo ritorno). Esso, nel pannello della mostra, è tracciato su uno specchio a testimoniare come siamo sempre “da qualche parte dentro” quest’infinito). Tra gli architetti, oltre a Miglietta stesso: Stefano Boeri, Paolo Portoghesi, Franco Purini, Alberto Ferlenga, Amedeo Schiattarella, Orazio Carpenzano, Cherubino Gambardella, e i designer Riccardo Dalisi (con un scritto sulle basi morali del design) e Ugo La Pietra. Contributi più teorici sono quelli dello scrittore e saggista Roberto Cotroneo (che scrive sul rapporto tra identità e frontiera) e dell’estetologo Sergio Givone (che ripercorre la relazione tra identità e verità nella parabola della filosofia occidentale).
Altre declinazioni, non meno interessanti, sono proposte da Daniel Buren (illustra l’opera realizzata per la mostra), dallo scultore israeliano Dani Karavan, da Achille Perilli, Achille Pace, Luca Maria Patella, Pablo Echaurren (con le sue particolarissime carte di identità). Tra gli artisti partecipanti (ma a molti di loro la categoria va stretta, essendo anche teorici e didatti): Marco Romano, Fiorenzo Zaffina, Giangiacomo D’Ardia, Elisa Montessori, Franz Prati, Fulvio Cardarelli, Giovanna De Sanctis Ricciardone, Armando Marrocco, Sergio Miglietta, Giorgio De Finis (antropologo), Vittorio Tolu, Franco Summa, Vittorio Spigai, Paolo Gubinelli, J. M. Schwarting, Gabriele Artusio.
Carmelo Strano affida il suo messaggio sull’identità, forte e terribile, di Taranto (oppressa dai fumi dell’Ilva) ai versi a cui si accompagna l’immagine elaborata da Gabriele Artusio.
Va da sé che da tutto questo materiale non scaturiscono conclusioni convergenti. E questo è il segno della ricchezza della rivista e della mostra. Dal mio osservatorio di filosofo del linguaggio, rilevo che è diventato un luogo comune parlare di architettura come linguaggio. Ma questa metafora è usata per lo più in modo generico, e diviene una sorta di mantra per alludere a una qualche forma di comunicazione. Ma cosa vuol dire, qui, “comunicazione”? Certamente un pilastro largo e quadrato “comunica” solidità, per via che è solido. Troppo spesso l’elemento simbolico è posto come una verniciatura sottilissima su quello funzionale. Né risulta opportuno parlare di “linguaggi” al plurale, se non si tiene presente la diversità linguistica, che dipende da tutti e da nessuno.
Il binomio individuato nella rivista è costituito da architettura e linguaggio. Linguaggio quale dispositivo per ritrovare il medesimo nell’eternamente diverso e – inversamente – per realizzare ogni volta lo stesso in modo diverso, tenendo conto del contesto. Proprio questa è la nozione di identità agitata nella rivista (e nella mostra).
Inoltre, questa idea di identità si lega alla visione. Come affermava il fondatore della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure, c’est le point de vue qui fait la chose. Questo è talmente vero – in linguistica come in architettura – che senza un punto di vista non è possibile nemmeno muovere un passo. Infatti, la stessa cosa non è mai “la stessa” cosa al di fuori di una prospettiva (e di un contesto). Inoltre, le prospettive non sono mai fisse, ma lasciano sempre tempi e spazi per il cambiamento. Gli scopi sono definiti, ma anche (parzialmente) indefiniti. Insomma, come avrebbe detto un altro teorico del linguaggio e della semiotica, Charles Sanders Peirce, una teleologia evolutiva soggiace a ogni progettualità degna di questo nome.
L’identità “vera”, allora, diventa una coazione a non ripetere, e a non ripetersi.