Julius Evola, Cavalcare la tigre sessant’anni dopo

Julius Evola, Cavalcare la tigre sessant’anni dopo

Cavalcare la tigre come Pensiero, attraversando Evola “maestro segreto” del ‘68   

Ricorro al titolo di Cavalcare la tigre (1961), il libro di Julius Evola, a sessanta anni dall’uscita, per usarlo ancora oggi come metafora di lettura e azione: nei confronti del pensiero, dell’opposizione (individuale e collettiva), della creazione. Può indicare ancora il come porsi verso questi territori: con lo staccarsi aristocraticamente dalle apparenze “senza spessore” del mondo circostante (pur non entrando necessariamente nella passività o rinuncia) o, viceversa, con l’affrontarle in un qualche modo, ricorrendo a un possibile intervento.

Il detto (estremo orientale) – Cavalcare la tigre – continua a riguardare l’essere che non sente appartenenza profonda, né vincoli interiori, con il mondo circostante. Quindi continua a essere una eredità per chi si riconosce interiormente in certi percorsi dell’esistenza. Può divenire “un manuale di autodifesa personale” per chi ritiene di vivere in un’epoca di dissoluzione: ieri come oggi.  Se si riesce a cavalcare una tigre, sapendola anche ascoltare, si può impedire che questa possa assalirci: mantenendone la presa, può accadere che possa avvenire un cambio di direzione.

Cavalcare la tigre può rappresentare l’esistenza con i suoi diversi aspetti: come quelli della contestazione a un sistema. L’influenza sotterranea di questo libro fu più vasta delle apparenze.

 Cavalcare la tigre, Jack Kerouac e “l’anarchico di destra”

 A colloquio con Evola è il titolo di un’anonima intervista (su ‘Ordine Nuovo’, Roma, gennaio-febbraio. 1964).

Evola così risponde a una domanda su Cavalcare la tigre e sulle sue possibili influenze, come quelle di favorire l’assenteismo o la rinuncia di ogni azione positiva verso il mondo: «Non nego che il libro accennato non ha potuto non trarre le conclusioni da un bilancio negativo (…). Se qualcuno ha parlato del libro come un manuale dell’anarchico di destra, ciò, in certa misura, colpisce il segno. Ha sconcertato il mio affermare che oggi non esiste nessun sistema politico, nessun rilevante schieramento o partito pel quale valga la pena impegnarsi sino in fondo: che tutto l’esistente va negato. Ma questa negazione e questo non-impegno non derivano dal non avere dei principi, ma proprio dall’averne; precisi, saldi e non suscettibili di compromessi. Né questa è la sola differenza rispetto al nichilismo o all’anarchismo degli “arrabbiati”, della generazione più o meno bruciata, beats, hipsters e simili, il cui “no” non parte da nulla di positivo. Nella vita di oggi può essere opportuno, per molti, retrocedere per stabilirsi fermamente su di una linea più interna di trincee, affinché ciò su cui non si può più nulla, nulla possa su di noi».

L’Arco e la clava

L’erranza di Jack Kerouac, autore del libro On the road (Sulla strada, 1957), è accostata talvolta all’immagine dell’anarchico di destra. Questa figura è attraversata da Julius Evola nel libro L’arco e la clava (1968), in cui presenta un saggio di estrema attualità: quello appunto su La gioventù, i beats e gli anarchici di destra. Nel testo ne esplicita la differenza: «L’anarchico di destra sa quel che vuole, ha una base per dire “no”»; per il beat, viceversa, «può valere la definizione di “ribelle senza una bandiera” o “senza una causa». Il libro si diffonde fra i giovani, anche fra quelli “armati” di chitarra e sacco a pelo in viaggio per il mondo in autostop, anticipandone bisogni di contaminazione e di andare oltre le ideologie storiche. Evola nel ’68 viene visto come “una specie di maestro segreto”.

Cavalcare la tigre, l’attenzione dell’editore Vanni Scheiwiller

Cavalcare la tigre, che ha avuto varie edizioni, «fu una specie di “libretto rosso” tra gli studenti di sinistra e destra dopo il ’68 francese», scrive Vanni Scheiwiller (primo editore del libro). Viva Evola compare sui muri di diverse università italiane (Genova, Napoli, Catania). I movimenti studenteschi di contestazione europea – dei maggio ’68 / ‘69 e delle successive opposizioni – trovano in lui un imprevedibile anticipatore di antagonismi a tutto campo”. Un esempio al riguardo: brani dei suoi libri letti nella Facoltà di Lettere a Roma, occupata dai contestatori del ’68.

Cavalcare la tigre, l’analisi di Marcello Veneziani

Lo scrittore e politologo Marcello Veneziani analizza la lettura di questo libro nel 2011 (su ‘Il Giornale’): «Cavalcare la tigre fu il ’68 della destra colta e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione. (…) Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. (…) perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica. Fu la via d’accesso per entrare da destra nel dionisismo di massa che poi esplose nel ’68. (…) Chi cercò invece di restare nell’ambito della milizia politica, vide Cavalcare la tigre come un fiume di confine per tentare una sintesi tra il radicalismo rivoluzionario di destra e quello di sinistra, o anarco-comunista».

Cavalcare la tigre nel Dada come Arte Ultima

Le vicende e i transiti molto personali – fra Futurismo e Dada – costituiscono un aspetto rilevante della complessa e versatile personalità di Julius Evola. In questi passaggi di avanguardia l’autore inizia a formulare un procedimento-percorso di pensiero, attraversando immagini-parole di arte e poesia. Si confronta con il nichilismo e i limiti della ragione, che lo spingono verso la negazione radicale del mondo e dei valori esistenti: fino al punto-zero del Dadaismo, dopo aver transitato nel Futurismo. Le sue “rappresentazioni” sono uno dei gradi zero dell’astrazione immaginale del primo Novecento.

Il movimento Dada risulta un’estremità dell’avanguardia, in quanto è proteso a “recidere” l’arte con innocente crudeltà (come, per altri versi, fa il Futurismo). Vuole distruggere miti del passato e presente, per rapportarsi con la loro crisi, i loro sistemi e la società: «Esprimere è uccidere». Intende essere un limite dell’arte stessa e una spontanea espressione in forma universale, realizzante la propria negazione: «Possedere, non essere posseduto».

Con Dada, entusiasmi e contraddizioni

La significativa radicalità dada raccoglie le istanze più profonde che alimentano i movimenti d’avanguardia. Le stesse categorie artistiche sono negate, nella ricerca di passaggi verso le forme caotiche di una vita priva di razionalità. Il Dadaismo comprende «il bluff dell’arte moderna, e l’illusione di questa ricerca del nuovo». L’arte “libera”, per la prima volta nella sua storia, una risposta e concezione spirituale, un’espressione e un pensiero interiore.

Evola, con gli scritti e la pittura, “guarda” le contraddizioni dada fino a estreme e imprevedibili conseguenze. Ne condivide la radicale essenza nichilista, oppositiva a ogni valore acquisito dell’arte e della morale: la contraddizione, l’assurdo, il non-senso diventano posizione di pensiero “tradotto” in immagini e parole. La sua paradossalità è anche quella di aderire al Dadaismo (che rifiuta la formulazione di linguaggi stabiliti), per poi teorizzarne una possibile estetica: come nel testo Arte Astratta del 1920. Similarmente esprime opere con un intrinseco equilibrio e valore artistico, contrariamente alle intenzioni di questo movimento.

Le immagini di Evola

Le immagini, che Evola affida alla sua pittura e poesia, non possiedono solo una comunicazione sinestetica: risultano anche segnaletiche di un concetto. Queste accompagnano, in maniera sotterranea, il suo procedimento di pensiero, che sottintende simultaneamente quello esoterico e propriamente magico-alchemico.

L’esperienza pittorica e poetica di Evola nel movimento dada, pur breve nella temporalità, risulta intensa, anche negli aspetti intellettuali, presenti e illuminanti nella stessa pratica. Come lo è il suo lasciare il pensiero-immagine della pittura e poesia per dedicarsi alla filosofia, con il suo intervenire nella creazione e con la sua indifferenza per il creare o non. Questo suo transito nella creazione suscita riflessioni, in quanto è difficile separarlo dal suo successivo percorso di pensiero. Evola, anche nei suoi attraversamenti di creazione, rimane sempre un pensatore, che “trascende” la propria espressione in una immagine-parola.

Il Dadaismo è un limite

Evola, ritornando successivamente sul Dadaismo, lo definisce «un limite: in esso l’arte, nel suo valore religioso e, in generale, come spontanea espressione in forma universale, realizza la propria negazione». Gli appare come l’approdo estremo dell’arte modernissima – cioè astratta – limite insuperabile del nichilismo artistico, non intravedendo nell’ambito della forma, dopo Dada, una possibilità di sviluppo. Il Dada può costituire, con la sua proposta di azzeramento, il linguaggio ultimo ed estremo dell’avanguardia novecentesca, proprio con l’esprimere una creazione oltre ogni canone assegnato alle sue forme: non solo dalla tradizione ma anche dalle “rotture” indicate dalle avanguardie storiche.

L’autore arriva agli anni Sessanta con le loro tensioni (politiche, artistiche) e le ipoteche ideologiche. Indica, però, l’esaurimento dei linguaggi delle avanguardie storiche con l’assoluta improbabilità di una loro rinnovabile presenza: «In realtà, i movimenti a cui mi interessai ebbero un valore non tanto in quanto arte, ma appunto come segno e manifestazione di uno stato d’animo del genere, quindi per la loro dimensione meta-artistica e perfino antiartistica».

L’abbandono dell’attività artistica e letteraria

Evola, abbandonando l’attività artistica e letteraria, conferma la sua estraneità sulla rivista ‘Bleu’ (1921): «Siamo fuori (…) abbiamo esaurite … tutte le esperienze, spremute … tutte le passioni (…). Non è pessimismo: si tratta di aver veduto (…) io, sono al di fuori».

Su Il cammino del cinabro (1963), sua autobiografia intellettuale, scrive: «Esaurita l’esperienza, andai oltre. Buona parte dei miei quadri è andata dispersa». Termina il testo dedicato al suo transito artistico, affermando: «Non scrissi poesie né dipinsi più dopo la fine del 1921». Evola non rinnega la parentesi artistica, successivamente alla sua conclusione, ma considera impersonalmente il suo autore “scomparso”. Ci ritorna, sporadicamente a distanza di tempo, con articoli e considerazioni, ma anche, negli anni 1960-70, attraverso “copie” di ciò che aveva già dipinto. Il ricopiare un proprio quadro, realizzato in passato, risulta un sintomatico e ulteriore atto di “estraniamento” d’identità.

Cavalcare la tigre, una testimonianza

Trovo una testimonianza di Arte Ultima, da parte di Evola, proprio su Cavalcare la tigre: «Del resto da una considerazione oggettiva dei processi in corso, si ha il senso netto che l’arte non abbia più un avvenire, che essa si trovi respinta in una posizione sempre più marginale rispetto all’esistenza, il suo valore riducendosi proprio a quello di un genere voluttuario». Quello stato dell’arte che Evola denuncia nel proprio tempo, oggi, dopo decenni di sua ghettizzazione, ricerca le sue opere di pensiero-arte, magari da lui disperse. Le ricerca proprio come oggetti voluttuari di mercato, enfatizzandone il lavoro e paragoni. Ciò può favorire anche l’affiorare di opere dubbie, in quanto Evola ha una produzione artistica limitata. Il suo Cavalcare la tigre è ancora oggi, forse ancora di più, una possibile indicazione di Arte Ultima.

NOTA

Riferimenti e stralci sono ripresi dalle seguenti pubblicazioni sull’autore:

  • Alchimie e maschere di Julius Evola, IIriti Editore, 2005.
  • Maschere di Evola come percorso controcorrente, in AA.VV., Studi Evoliani 2008, Ed. Arktos, 2009
  • Cavalcare la tigre’ con pulsione-coscienza, in Pulsional Gender Art, Avanguardia 21 Edizioni, 2011.
  • Cavalcare la tigre’ come Dada-Pensiero, in AA.VV., Studi Evoliani 2016, Ed. Arktos, 2017.
  • Cavalcare la tigre’ come Dada-Pensiero, in Julius Evola: Vita Arte Poesia Eros come Pensiero e Virus, e-book, Tiemme Edizioni Digitali, 2021.