Il monumentalismo di James Lee Byars
Si ripropone oggi in uno spazio d’avanguardia una grande mostra dell’artista americano morto venticinque anni fa. All’Hangar Bicocca il monumentalismo è d’obbligo e il suo lavoro si presta all’ambiente dominato dalle Sette Torri di Kiefer. Il suo successo giustifica la spesa per le installazioni presentate, la grande colonna coperta da lamine d’oro all’ingresso e l’enorme parete di tessuto di seta anch’essa color oro a metà del capannone: oro a fiumi nell’ex officina di “black tires”. Sono i tempi!
Le altre, di dimensione solo un poco più modesta e sapientemente illuminate, sembrano il risultato di una lezione d’arte (e di lusso): corpi geometrici e fantasie un po’ orientaleggianti in vari materiali piazzati su tavoli o per terra, sistemati nell’ambiente a creare prospettive ottiche rigorose, insieme con interni di tende di un colore smaccatamente intenso a giocare con quello del pigmento principale di un corpo di seduta piazzato proprio davanti all’ingresso (ovviamente senza nessuno seduto sopra). La lezione si conclude qui.
Confesso: ho rispettato l’appuntamento perché in passato avevo visto tre opere di James Lee Byars che mi avevano convinto: due molto vecchie e una recente. La prima quasi quarant’anni fa a Kassel 4, la seconda all’ingresso del Castello di Rivoli, almeno venti, e la terza recentissima, in una chiesa di Venezia (quest’ultima da me già commentata in un post precedente).
Purtroppo esco dall’Hangar deluso: avevo sopravvalutato quest’artista, forse influenzato dal fatto che era amico del grande Beuys. Se ne parlo è perché questa mostra mette in evidenza come il mercato, il grande mercato degli artisti di successo che perdono tensione creativa, gioca loro brutti tiri: il monumentalismo gratuito, cioè non sorretto da ragioni spaziali (e per spazio intendo quello che ha una storia oltre che una fisicità incombente), stride col messaggio che mi sembrava evidente nelle opere citate prima.
Forse la lancia nel grande ingresso settecentesco del castello torinese ha generato tutte le opere dell’Hangar, ma l’ovattazione della luce nel capannone milanese nasconde la sua storia e rende il monumentalismo fine a se stesso: grande fisicamente non significa grande esteticamente e non basta la sensibilità per il colore a giustificare l’impiego di tutto quell’oro. Se questo aveva un senso nella chiesa veneziana, perché le lamine non erano spiaccicate sulla superfice della “caverna platonica”, ma vibravano lievemente al moto dell’aria, commentando così quello che mi sembrava un autoepitaffio, nello spazio milanese diventano pura esibizione di colore.
Ma che altro deve essere un’opera d’arte? Si certamente questo gioca il suo ruolo, ma per dire qualcosa sulla vita. E sulla morte, come mi sembrava evidente a Venezia. E anche nella stanza di Kassel, resa praticamente accecante dal bianco assoluto con il quale era stata rivestita e illuminata. Una promessa non mantenuta di tabula rasa sul terrorismo dell’immagine.
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