Una petizione online. Questo è lo strumento che molti intellettuali cinesi hanno deciso di adoperare per tentare di cambiare il sistema. Non chiedono nulla di sconvolgente dal nostro punto di vista: libertà di espressione, rispetto per la libertà personale di chi diffonde informazioni non autorizzate dalle autorità, limiti ai funzionari di polizia nel punire, interrogare o censurare chi organizza incontri o assemblee per discutere di problemi comuni.
La petizione è inviata al Congresso del Popolo, e la risposta non si è fatta attendere. I profili su WeChat di due prestigiosi estensori della petizione – docenti presso l’importante università di Tsinghua – sono stati bloccati immediatamente. Ma c’era da aspettarselo.
Quello che invece non si capisce è perché la comunità internazionale non sostiene le comprensibili ragioni di chi vorrebbe introdurre principi di democrazia nel grande Paese asiatico. Ancora una volta abbiamo due pesi e due misure. Se si tratta di criticare un regime dittatoriale di un Paese islamico, ad esempio, le parole di condanna non si contano.
Ancora di più, se si decide di porre in atto un intervento armato a favore dei «ribelli» che lottano contro il tiranno – vedi Libia o Siria – i media sono pronti a recitare la litania delle libertà conculcate. Ma se si tratta della Cina, che detiene una gran parte del debito pubblico degli Usa e del Giappone, che importa enormi quantità di merci da grandi Stati, il silenzio è d’oro.
In compenso su alcuni giornali appaiono cenni di malcelata soddisfazione per le disgrazie del popolo cinese. Si legge che la crisi economica conseguente all’epidemia spingerà i grandi gruppi industriali a far rientrare negli Usa e altrove attività produttive e investimenti delocalizzati in passato. Ma non mancano coloro i quali ricordano che non esiste solo la Cina nel mercato del lavoro mondiale e altri Paesi potranno ospitare volentieri le lavorazioni affidate fino a oggi a Pechino.