La regione, che ora si chiama Italia, anticamente apparteneva agli Enotri, e per un certo tempo il loro re era Italo”. Così Antioco di Siracusa, nel lontano 500 avanti Cristo, ci racconta come nasce il nome del nostro Paese. “Enotria”, che corrisponde all’attuale Basilicata, significa “terra del vino” ed è una radice etimologica che sottolinea l’antico legame tra l’Italia e il nettare degli Dei, nato grazie ai greci che hanno importato le viti sulla nostra penisola, al punto che il vino più famoso del tempo si chiamava “Aglianico” (traslitterazione di “ellenico”): fu il primo di una serie di successi enologici che durano fino ad oggi.
In giornate molto difficili per noi e per il mondo, forzati alla quarantena pro-distanziamento, il legame tra noi e il vino diventa quasi trascendentale. Lo è anche dal punto di vista industriale, tanto che l’Italia è attualmente il maggior produttore di vino al mondo, con 22 milioni di ettolitri l’anno. In questo momento storico l’Italia è completamente autosufficiente, dal punto di vista della produzione alimentare, soltanto per riso, acqua minerale e appunto vino. Il risotto all’Amarone, e un bicchiere d’acqua per digerirlo, restano dunque garantiti. E, anzi, proprio in periodi difficili non manca il vino italiano nelle nostre tavole, a maggior ragione perché, nei limiti, diventa un sano diversivo contro il logorio della vita domestica.
Attualmente sono più di 2mila le imprese dell’industria vitivinicola del Bel Paese, 300mila quelle agricole: alcune hanno storia antichissima, come l’azienda Barone Ricasoli, che lavora il Chianti Classico dal 1141, riprendendo la tradizione monastica medievale che in Italia si è specializzata nel vino da messa (a differenza ad esempio di quella del Belgio, che si è concentrata sulla birra).
È da esempi come quello toscano che inizia la forte caratterizzazione territoriale del nostro vino, che si lega alla crescita sociale e culturale di città e campagne: coltura che diventa cultura. Fondamentale, da questo punto di vista, il ruolo dell’arte, dal Rinascimento alla Modernità: basti pensare al Bacco scolpito dal Michelangelo (1496), quello dipinto dal Caravaggio (1596) o, più tardi, al vino brillo e brillante del “Pranzo del Vescovo” di Giuseppe de Nittis (1863). Nell’arte contemporanea invece le stesse cantine sono diventate opere d’arte a presidio del territorio: su tutte la maestosa Rocca di Frassinello, nei pressi di Grosseto, opera di Renzo Piano; lo spettacolare “Carapace” realizzato da Arnaldo Pomodoro che ospita le cantine Castelbuono a Bevagna, in Umbria. Ma anche realtà meno note come la cantina Mirvita, nei pressi di Castel del Monte in Puglia, ispirata al suprematismo di Kazimir Malevich.
Proprio grazie al suo legame esperienziale e territoriale con l’arte di un popolo, il vino italiano da vino “comune” è diventato qualitativamente il più apprezzato di tutto il pianeta. A trainare è soprattutto il Prosecco, che da solo vale il 15% del nostro export enologico. Ma ai primi posti delle classifiche mondiali abbiamo vini piemontesi (Barbaresco e Barolo), veneti (Amarone e Soave), ma anche il Fiano, il Nero di Troia e il Sirah nel Mezzogiorno.
Parliamo di bottiglie anche poco costose (con 20-30 Euro al supermercato, dopo una lunga fila, si possono acquistare, sic) che sicuramente possono consolarci in giornate di angosciosa clausura. Ma consumare vino italiano è anche un modo per ripartire tutti insieme: dietro ogni bottiglia infatti si cela il lavoro di più di 13mila addetto con 11 miliardi di valore. Sarà proprio da queste bottiglie, ritenute dagli esperti il miglior ambasciatore del food italiano, che si potrà dare un bel contributo alla recupero della nostra economia.