Le prime avvisaglie della malattia avevano fatto precipitare il musicista nella più cupa disperazione, accentuando, forse, le tendenze latenti nel suo carattere all’introversione e alla melanconia. Un anno dopo, nel maggio del 1802, seguendo i consigli del patologo viennese Johann Adam Schmidt, al quale si era rivolto per curarsi, Beethoven decise di concedersi un periodo di riposo di parecchi mesi in perfetta solitudine in una casa di campagna ad Heiligenstadt, un piccolo centro agreste alla periferia di Vienna. Solo il suo fedele allievo Ferdinand Ries va a trovarlo e ne riferisce l’evidente stato di prostrazione in cui si trova. In questo luogo, il 6 ottobre, egli scrive il celebre documento che va sotto il nome di Testamento di Heiligenstadt e che sarà ritrovato in un cassetto nascosto solo dopo la sua morte. «Per i miei fratelli Carl e (…) Beethoven [il nome di Johann è regolarmente omesso dal musicista, n.d.r.]. Oh uomini, che pensate e affermate che io sono un astioso testardo e misantropo, come siete ingiusti verso di me! Non conoscete la ragione segreta che mi fa apparire così ai vostri occhi. Fin dall’infanzia il mio cuore e il mio spirito erano inclini al tenero sentimento della benevolenza e io mi sono sempre sentito propenso a compiere grandi azioni. Pensate, però, che da sei anni sono stato colpito da un male senza speranza, che è peggiorato per colpa di medici incapaci. Anno dopo anno sono stato illuso dalla speranza di un miglioramento e infine sono stato costretto ad accettare la prospettiva di un’infermità durevole (la cui guarigione richiederà degli anni o forse sarà impossibile). Dotato di un carattere ardente e vivace, sensibile anche ai piaceri della società, sono stato costretto a isolarmi e a vivere la mia vita in solitudine. E se talvolta tentavo di dimenticare tutto ciò, oh con quanta durezza ero messo di fronte alla realtà della triste esperienza del mio cattivo udito. Eppure non mi era possibile dire alla gente: “Parlate più forte, gridate perché sono sordo!” Ah, come potevo confessare una menomazione proprio in quel senso che in me dovrebbe essere più perfetto che negli altri, in un senso che un tempo in me arrivava al massimo della perfezione, di una perfezione che pochi altri che fanno il mio mestiere posseggono o mai hanno posseduto? Oh, non posso farlo! Dunque perdonatemi se mi vedete chiudermi in me stesso quando, invece, volentieri mi unirei a voi. La mia disgrazia è per me doppiamente dolorosa, perché per essa io sono destinato ad essere incompreso. Non posso più trovare conforto nella compagnia, nelle piacevoli conversazioni, negli scambi di confidenze. Devo vivere quasi completamente solo e posso frequentare la gente solo se ciò è strettamente necessario. Se mi avvicino alla gente sono preso da una violenta angoscia perché ho paura di rischiare che si conosca la mia condizione. Così è stato in questi sei mesi che ho trascorso in campagna. Il mio intelligente dottore, prescrivendomi di risparmiare quanto più possibile l’udito ha assecondato la mia naturale disposizione, benché io talvolta, spinto dal desiderio di stare in compagnia, mi comporti in contraddizione con essa. Ma quale umiliazione provavo se qualcuno accanto a me udiva il suono lontano di un flauto, e io non udivo nulla, udiva il canto di un pastore e io, ancora, non udivo nulla. Tali fatti mi hanno fatto giungere sull’orlo della disperazione ed è mancato poco che ponessi fine ai miei giorni. Solo l’arte mi trattenne. Ah, mi sembrava impossibile, abbandonare questo mondo prima di aver fatto ciò a cui mi sentivo destinato. Così tollerai questa miserevole vita, veramente miserevole con un corpo tanto sensibile che può essere trasportato repentinamente dalla migliore alla peggiore condizione. Pazienza! Devo scegliermi come guida la pazienza e così faccio, spero di resistere e di sopportare tutto ciò fino a che le Parche inesorabili decideranno di recidere il filo della mia vita. Forse migliorerò o forse no: sono rassegnato. Sono costretto a diventare filosofo a ventotto anni: non è facile e per un artista più che per chiunque altro. Tu, oh Dio, conosci il mio animo. Tu sai che in esso vi è amore per l’umanità e inclinazione a fare il bene. Oh uomini, se un giorno leggerete questo, sappiate che siete stati ingiusti con me e l’infelice potrà consolarsi considerando un suo simile che, malgrado la Natura lo abbia ostacolato ha fatto tutto quello che poteva per essere accettato nella schiera degli artisti e degli uomini degni». Segue la raccomandazione ai fratelli di far sapere al mondo, dopo la sua morte, la verità sulla sua malattia servendosi anche dell’aiuto del dottor Schmidt, e quella di rendere noto quanto egli stesso aveva scritto. Così poi conclude: «Mi affretto con gioia a incontrare la morte. Se essa verrà prima che io abbia avuto la possibilità di esplicare tutta la mia arte sarà arrivata troppo presto, malgrado il mio crudele destino e desidererei che essa venisse più tardi. Comunque anche così sarei felice, poiché essa non verrebbe forse a liberarmi da una condizione di perenne dolore? Vieni, dunque quando vuoi, ti affronterò con coraggio. Addio e non dimenticatemi del tutto dopo la mia morte: l’ho meritato il vostro ricordo, dal momento che per tutta la vita ho pensato come rendervi felici: siatelo».