Nell’antica lingua norrena, il termine brandr significava, letteralmente, bruciare: esso faceva riferimento alla pratica di marchiare a fuoco il bestiame per distinguerne la proprietà. Secondo le ipotesi più accreditate, sarebbe questa la derivazione etimologica della parola brand, un concetto divenuto importantissimo nell’ambito del marketing su cui è bene fare chiarezza, ripercorrendo brevemente come è cambiato nel corso del tempo.
Spesso, tendiamo a confondere il concetto di brand con quello di marchio, da intendersi come il segno grafico o simbolo utilizzato da un’azienda per identificare i suoi prodotti/servizi e differenziarli da quelli dei concorrenti. Un brand è molto di più: non è qualcosa di tangibile o qualcosa che si può disegnare, ma è ciò che un prodotto e un’azienda rappresentano nella mente del consumatore. Così il brand Ferrari non è il simbolo del cavallino rampante o il nome di una casa automobilistica: nella mente di tutti Ferrari è sinonimo di successo, stile, lusso, eleganza.
Nel corso del tempo, con la diffusione del modello consumistico, i brand sono diventati elementi onnipresenti nella quotidianità di ognuno di noi: praticamente tutto ciò che esiste è un brand, dai cellulari ai televisori che usiamo, dai film che vediamo al cibo di cui ci nutriamo, dalle squadre calcistiche che tifiamo ai metodi di dieta che adottiamo. Attraverso la pubblicità, ma non solo, i brand ci martellano incessantemente, orientano i nostri gusti, stimolano le nostre corde emotive più profonde, addirittura prendono posizione su tematiche politiche e sociali: il brand Benetton sin dalla sua nascita negli ‘80 ha fatto della lotta agli stereotipi il cavallo di battaglia della propria comunicazione; pensiamo a Coop e Ikea, che nella giornata del Family Day del 2016 hanno preso posizione a favore del dibattito sulle Unioni Civili. In questo senso, i brand contribuiscono a strutturare il nostro pensiero e a interpretare i cambiamenti e le trasformazioni della nostra società.
Parallelamente a questo crescente protagonismo, i brand hanno ampliato il loro fronte d’azione ben oltre gli spazi commerciali e le metodologie del branding (inteso come attività di creazione e gestione di un brand) sono state estese ad aree un tempo impensabili: pensiamo al nation branding, che utilizza tecniche di marketing per promuovere l’immagine di una nazione. In sostanza, il nation branding consiste nella ridefinizione dell’identità di un paese al fine di poterla comunicare all’estero e attrarre turisti e investimenti. L’espressione è stata coniata un paio di decenni fa da Simon Anholt, che ha fatto del nation branding il suo mestiere. Un altro esempio di questa tendenza è costituito dal personal branding, una disciplina che impiega tecniche di branding per strutturare e promuovere il proprio brand personale. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, tecniche di personal branding non sono impiegate solo da influencer o personaggi politici, ma anche dalle persone comuni. Cosa siamo sui social network se non “prodotti” in vetrina che cercano di rendersi appetibili sul piano lavorativo e sociale creando il proprio brand personale?
D’altronde, nell’epoca liquida in cui viviamo i brand vanno assomigliando sempre più a persone dotate di un loro carattere (ad esempio, potremmo associare al brand Virgin un carattere irriverente, al brand Harley Davidson un carattere ribelle), e le persone assomigliano sempre di più a merci in vetrina che hanno la necessità di differenziarsi e promuoversi rispetto ad altre merci. Giustamente Lucas Conley parla di “sindrome ossessiva da brand”, intendendo con questa espressione che nulla è più immune alla brandizzazione, nemmeno la morte: l’azienda di pompe funebri Taffo è riuscita a costruire un brand ben riconosciuto e apprezzato adottando una social marketing strategy di successo e un linguaggio ispirato al black humour. In questo senso, possiamo davvero dire che i brand sono la lente di ingrandimento attraverso cui guardiamo e percepiamo la realtà che ci circonda.