I film sono ora la principale forma di divertimento nella civiltà moderna, essi richiedono un completo asservimento, in condizione di totale stato d’ipnosi, ai più facili richiami emozionali …
F.R. Leavis in Mass Civilisation and Minority Culture
In epigrafe questa sentenza di mezzo secolo fa, ma non polemicamente: il film di Wim Wenders è un’eccezione.
Io non sono buono e Fuori dai denti non lo è intenzionalmente. Chi combatte per difendere l’arte dall’inquinamento visivo dilagato ovunque non può permettersi oggi la bontà: l’apparente originalità, che dovrebbe essere un risultato sofferto e oggettivo e non una premessa, è diventata “maniera” accettata, il cardine attraverso il quale si giustifica l’operazione di costipare il mondo delle proprie fantasie più o meno soggettive. L’approssimazione del “sentire”, per intenderci il Dante propinato in un programma televisivo italiano da Aldo Cazzullo, sdogana le superficialità degli “artisti” che ignorano che il linguaggio non appartiene a loro ma, se mai ci riescono, aspetta il loro contributo per liberare negli altri, in tutti noi, un sospiro di sollievo dalle magagne del mondo. Ma per offrirlo occorre una profonda conoscenza della lingua nella quale si è scelto di esprimersi, lingua che si rinnova, sì, ma con memoria. Infatti la caratteristica più diffusa nell’attuale mondo dell’arte è l’ignoranza di ciò che è già stato fatto e fatto bene e non ha bisogno né di ripetizione, né di ammiccamenti. Per intenderci, di tagli di Fontana ne basta uno, per il resto occorre entrare nel varco che lui ha creato, magari con mezzi nuovi ma con memoria profonda.
Un’altra delle novità che connotano il mondo dell’arte attuale è il ricatto che la società di massa esercita nei confronti del produttore, e di conseguenza di qualsiasi creatore di immagini: l’avvisaglia si è manifestata all’inizio degli anni sessanta e ha indotto alcuni talenti a un allargamento dell’orizzonte, prendendo in considerazione che il linguaggio deve avere a che fare con le immagini e con gli oggetti della vita sociale quotidiana. Ma se questo allargamento è stato necessario e salutare ciò non significa che attraverso la Pop art non si sia aperto un varco allo sdoganamento di qualsiasi fantasia personalistica attraversi la mente dell’aspirante artista, che palesa un’ignoranza del linguaggio estremamente evidente: non basta aprire a quello pubblicitario o al pensiero debole per dare una risposta al bisogno sempre attuale di affrontare il problema della morte, per esempio, o della violenza, tanto per citare due dei nodi contro i quali si accanisce l’umanità.
La storia (o l’ideologia, secondo Fabio Mauri) è un altro dei punti cardine attorno ai quali gira la mente umana, soprattutto maschilista e in particolare da quando la religione è passata in secondo piano. Mi viene in mente questo punto dopo aver visto il film documentario di Wenders su Anselm Kiefer, un artista tedesco ossessionato da quella del suo paese, alle prese con i conti aperti da Auschwitz e più in generale dal nazismo nascosto sotto il tappeto. Non voglio parlare del valore artistico della pellicola (notevole), ma del pensiero, illustrato dal regista, di questo allievo? sodale? senza dubbio almeno “connazionale dello spirito” del grande Joseph Beuys: il passato storico, che lui ha avuto modo di sperimentare da bambino e vivere in un dopoguerra problematico fra le sue macerie “ancora fumanti” (l’uso del fuoco burriano), incombe pesante in tutte le sue opere.
In modo forse troppo evidente. Dico evidente per due motivi: il primo perché convinto che niente giustifichi il grido in arte (non lo giustifica in Bacon, non in Munch e nemmeno in Picasso, quando questi altrettanto grandi artisti ci ricorrono, perché essa è prima di tutto canto, equilibrio, voce delicata e sommessa, in poche parole, tangibile barlume di serenità), ma lo dico soprattutto con un occhio al linguaggio: siamo lontani dalle unghiate del suo connazionale o dei tre italiani appena nominati. Il film di Wenders ci mette sapientemente di fronte alle quinte di un immenso teatro, una scenografia impressionate per dimensioni e, bisogna onestamente ammetterlo, coerenza stilistica. La rappresentazione la fa da padrona. Mi faceva notare un giovane musicista che siamo di fronte al sogno narcisistico di ogni artista: ricreare il mondo delle proprie esperienze più profonde, esperienze filosofiche oltre che spaziali: Hoelderlin, Celant e Heidegger accompagnano il viaggio di questo ragazzino invecchiato.
Ma perché occuparsi di Kiefer dopo il largo cappello introduttivo sui condizionamenti che la società di massa esercita sull’arte? perché siamo ostaggio addirittura di un collezionismo di massa. Stupisce la quantità di collezionisti in grado di comprarsi le opere di K. I prodotti del tedesco sono l’esempio eclatante di una contraddizione evidente: non è tanto l’altezza del suo grido a rendermi perplesso, quanto la sua quantità, la sua repetitività: la società che può permettersi anche una sola delle sue opere mastodontiche è molto più insidiosa di quanto sembri. Lo è tanto da reclamare un’impresa: l’acquisto di ettari ed ettari di terreno per accogliere le proprie fantasie, la messa in piedi o lo sfruttamento di ambienti sconfinati per ricostruire in qualche modo la tragedia vissuta dalla Germania, divisa geograficamente e nell’animo del suo popolo: le sette torri della Bicocca diventano venti, le quinte cosparse dei suoi manichini o le pile di libri di piombo innumerevoli, si fatica a percorrere gli immensi padiglioni di questa rappresentazione.
Per carità, vorrei avere un grammo della capacità d’impresa, e di rischio relativo, di un K, un grammo della sua conoscenza del mercato, quel fiuto che gli ha fatto sfruttare, dopo il Moma e il Gugghenheim, il grande successo raggiunto. Onore al merito, ma questo basta? E’ giusto e sacrosanto sfruttare il successo, ma è proprio necessario averlo per parlare di deserto della storia? Del suo vuoto? Delle sue macerie?
Alle porte di Milano, precisamente a Sesto S. Giovanni, s’innalzano al cielo brumoso della pianura padana le braccia metalliche dello scheletro delle Acciaierie Falk. La Milano intellettuale radical chic fa la fila per vedere all’Anteo Multisala Anselm di Wim Wenders. Bene, siamo contenti, ma trent’anni fa, quando la società del consumo spense gli altoforni, resi improduttivi dalle economie globali, mandando a casa un know out prezioso, l’ambiente dell’enorme complesso industriale è stato recintato e chiuso al pubblico. Nel suo interno silenzioso e deserto la natura in pochissimo tempo ha riconquistato terreno. Bene, siamo contenti: clandestinamente vi si incontrano i resti di una tragedia, lo sradicamento violento della vita. Ma ci affidiamo a una speranza: la sua eco (gutta) cavat lapidem.
Comunque i problemi messi in scena dal gioco della vita e della morte sono quelli di sempre: inutile girarci intorno. Meglio dedicarsi a fare sturacessi o coltivare pomodori, magari un po’ più buoni. Il mondo dell’arte visiva ha bisogno di una seria ramazzata, un azzeramento. Ripeto: Tabula rasa. Alle porte di Milano, senza spendere una lira, la si può visitare.
Clandestinamente: la società di massa nasconde le sue vergogne.