Nella seconda serata, la “spalla” di Ama pare abbia avuto un incidente alla testa del femore. Nell’abito rosso acceso di Elodie-Wanda Osiris (quasi della stessa tonalità delle scarpe da donna esposte il giorno prima sul palcoscenico dalla Berté come denuncia contro il femminicidio) il lungo spacco è andato fuori pista, e così anche gli occhi dei telespettatori hanno fatto un atterraggio d’emergenza.
Ma non è stata questa la causa (al più concausa) per cui ieri Amadeus, nel pensare al pubblico, non ha dovuto sfogliare la margherita al suono di m’Ama non m’Ama. Ringalluzzito e senza le piccole incertezze dell’avvio della Kermesse, è andato avanti brillantemente. I cantanti, anche nuovi e giovani, sembrano sintonizzati su quest’idea: che, per avere qualche speranza di vittoria, sia strategico non allontanarsi troppo dall’italica tradizione melodico-orecchiabile-popolare-scontaticcia-anacronistica. Ma gli ambiziosi e quanto meno quelli che ammiccano all’originalità per fortuna non sono mancati. A cominciare dal vincitore della serata canora, Ermal Meta, bravo anche come polistrumentista, che col direttore d’orchestra Zubin Mehta non condivide alcune cose: la “h”, l’età, la calvizie, l’origine (il giovane cantante non è indiano, è albanese, ormai italo-albanese). Ecco un esempio di “bel canto” che ti incuriosisce, di cui ti rendi conto che qualcosa di diverso lo presenta. C’è, intanto, la chiusura troncata del fraseggio e non prolungata o, peggio, ridotta a gorgheggio. Lo sviluppo del rapporto attacco e refrain segue il copione, certo, con il grido nel secondo step. Però Meta evita, ad esempio, il passaggio dal minore al maggiore, e tira dritto sul suo re maggiore iniziale che poi s’innalza di un’ottava, ma si mantiene. Le parole sono ancora più interessanti della musica. E si possono benissimo chiamare versi. Niente metafore stucchevoli, invece sono abbassate fino a scendere alle cose, ai gesti. Ma cose e gesti sono espressi in modo semplice ed incisivo, sicché il significato si allarga, proprio perché le parole hanno puntato a stringere. “Un milione di cose da dirti… ma non dico niente”, se non, ad esempio, che “ti ho presa sulle spalle/ E ti ho sentita volare”; “Senza nome io, senza nome tu/ E parlare finché un nome non ci serve più”. E poi è un ragazzo sincero, autentico, anche se ben sicuro di sé. Meta fa un po’ il paio con il gruppo Lo Stato Sociale. Hanno in comune l’interesse a tradire, almeno un po’, l’atteso e l’ovvio: nelle parole e nella musica. E allora i protagonisti di questo collettivo dallo stile post-Storie Tese, ballano, si truccano, inventano gesti performativi, recitano. E si interrogano: “Ma che senso ha vestirsi di pop, vendere la pubblicità”. Inoltre, consapevoli che “a canzoni non si fanno rivoluzioni”, fanno comparire Yoko Ono col cartello “War is over”.
Bel timbro di voce ben sapientemente impostato, lontano dai format, quello di Malika Ayane, e meritava di più del quarto posto. Ma a questo proposito: che senso ha sottoporre a concorso quelli che, nel bene e nel male, sono i pilastri dei 71 anni del Festival? Facciano i big ospiti (se lo sono diventati davvero).