Sono tornato in Russia alla ricerca della mia biografia e, soprattutto, per visitare i luoghi dei miei padri, dei miei avi, in breve, dei miei antenati. Ma ne ho avuti poi?
Mi sono sempre sentito un orfano. O sarà che una cicogna mi ha portato nel becco. E non solo perché i miei genitori sparirono nell’enormità del mutamento russo e io, di fatto, non li conoscevo. Mi ha cresciuto una zia, con la quale vivo tuttora in Germania. È molto probabile che di lei si siano in tutta semplicità dimenticati quando fucilarono e fecero sparire per sempre i miei familiari.
Viviamo a Friburgo, piccola cittadina ben curata, con il broletto rosso scuro, nel quale l’organo canta Bach e lo spazio appartiene alla noosfera. Vi si possono respirare i suoni e i fruscii delle anime che hanno intriso delle loro pene e speranze l’aria della cattedrale. Forse qui ci veniva anche la Cvetaeva. Dalla casa nella quale visse per qualche tempo è sparita la targhetta. Ma la strada che porta fin là non la si dimentica. Gli studenti russi del conservatorio e dell’università se ne passano la memoria come una staffetta.
Tutti pensano che zia Gertrude, sorella di mio padre, sia mia madre. Nel suo carattere si affollano tratti di pionieri ed esploratori di tutte le nazioni d’Europa e d’America. E non è cosa da poco. Né per lei, né per chi le sta attorno. Lei, evidentemente, è immortale.
Mosca mi ha accolto con la magnificenza dell’illuminazione notturna. È diventata fragorosa ed elegante, ma gli ingorghi delle auto risucchiano il cervello e le forze della gente in un imbuto di negatività senza fondo. Ho preso al volo un Moskvič mal ridotto – i privati che forniscono mezzi di trasporto sono talvolta più garbati e meno esosi dei tassisti – e via! lungo il viale Ščelkovskij, dannato e disamorato viale, verso la dacia del mio illustre antenato. Circa trenta chilometri di strada desolata, ed ecco: il parco, la dacia perduta fra gli edifici di mattoni rossi del sanatorio, dipinti con gli indescrivibili decori degli anni Cinquanta – un miscuglio di realismo rivoluzionario messicano e realismo dell’Europa socialista del dopoguerra, che qualcuno immaginava come una vittima dei lager. Perciò tali decori fanno sempre pensare agli addobbi sepolcrali, sia che ornino mense altissime per l’assurdo, oppure sale da concerto simili a tribunali dell’Europa all’epoca dei fascismi. Il mondo è così inspiegabilmente comunicante, se non un tutto indivisibile. E lotta così accanitamente per disgiungersi: razze, nazioni, regioni, famiglie, generi, sessi. Solo le lingue vorrebbe trasformarle in una disgustosa sbobba unitaria. Bleurgh! Sloosh! Strapp! Ops! Crash! Splash!
E non c’è bisogno di capire. Studiare è da tempo passato di moda. I nostri figli nascono già manager. L’università va loro stretta. Del resto, io stesso non l’ho finita. È andata così. Però non ho neppure figli.
Napoleone, che tentò di creare l’Europa unita, e forse persino l’Eurasia, chissà quanto patisce oggi nell’aldilà. Con quanta lentezza e in quale miseria spirituale le sue idee rivoluzionarie si fanno strada attraverso lo spesso strato dell’ignoranza. Sebbene il sangue, da qualche tempo in qua, scorra in minor quantità. Alla ricerca di un nuovo equilibrio, i paesi fanno uso di contingenti sempre più limitati. In questo modo si frena il processo di riabilitazione della guerra. Il mondo non è riuscito a sconfiggerla. Ed ecco di nuovo nell’aria il suo odore, che qui, in questo bizzarro hotel, non è mai svanito del tutto.
La dacia, o, come direbbero oggi, la villa del nonno, è stata progettata nel modo migliore – una specie di enorme isba di pietra, riscaldata e di buona qualità. Ora lì ci si trovano camere di lusso, suite dei vip, quattro o cinque stanze, alcune persino su due piani, e un atrio perfettamente vuoto senza volto. Sulla panchina del parco che sta davanti all’ingresso del padiglione vip – una volta corpus1 e ancora così dicono i nuovi amministratori di CC2 – vanno a sedersi signore grasse, simili a rancorose bariste sovietiche, con le carrozzine. Proprio una di quelle matrone mi ha scortato nella mia casa d’infanzia e mi ha offerto costose bevande alcoliche che teneva sottochiave nello sgabuzzino. Di bar nell’accezione europea non ce n’erano.