Da tempo e da più parti si afferma che non dobbiamo più chiederci che cosa “è” una cosa, ma come “funziona” e non quali sono i “fatti”, ma quali sono le “conseguenze”. È così che ci troviamo costretti a reimmaginare che cosa sono le cose e come le conosciamo e persino cosa siamo noi, e a mettere in discussione concetti filosofici, ma anche scientifici, usuali come il tempo, lo spazio, il soggetto, l’esperienza e altro ancora. Non questioni di poco conto né per la filosofia né per la scienza (e direi nemmeno per la teologia). Questo sarebbe dovuto al fatto che non siamo più nel dominio del modo di produzione industriale, ma di quello digitale nel quale il codice software risulta essere il motore primario dell’economia, della cultura e della nostra stessa civiltà. Questo apre ad una serie di domande: che cosa è e che cosa può essere una società digitale, una software society? Ci siamo collettivamente preparati a governare una tale società? Quali resistenze o rifiuti sono in atto? Come e perché superare tali resistenze e come demotivare tali rifiuti? La metafora più usata per descrivere questa situazione è, con un tono che non va inteso in chiave apocalittica, il codice software si sta “mangiando il mondo” e lo sta mangiando attraverso logiche diffuse di disruption, con accelerazioni tecnologiche, con singolarità emergenti grazie ad intelligenze artificiali ed esponenziali e facendo saltare modelli di business-as-usual. Cosa significa vivere in una software society che permea tutta la vita: le logiche, le pratiche e le tecniche di controllo, la comunicazione, le forme della rappresentazione, della simulazione, della decisione, della visione, della scrittura, dell’interazione e i modi della memoria privata e collettiva? Cosa significa elaborare, governare, confrontarsi, essere governati, dal codice software in un approccio di continuous design and delivery cioè in un sistema per propria natura in continua evoluzione, fatto di instabilità, adattabilità, discontinuità con la necessità strutturale, e non occasionale, di continui aggiornamenti, variazioni, integrazioni? In questo mondo domina l’”aggiornamento”. Essere è essere aggiornati, pena il malfunzionamento sistemico. E questo apre ad una epistemologia del disimparare. Dati i cicli di accelerazione e disruption, obsolescenza e innovazione tecnologica sempre più ravvicinati saranno fondamentali le capacità di disimparare e reimparare rapidamente (…). Molte delle applicazioni con cui interagiamo non sono ancora state inventate, quelle che stanno emergendo arriveranno attraverso processi di rapida prototipizzazione e dismissione e, quelle sul mercato verranno costantemente aggiornate per abilitare nuove funzioni e interfacce. A fronte di questo stato di cambiamento continuo, saper disimparare sarà una competenza professionale e personale importante almeno tanto quanto saper apprendere rapidamente. È l’attuale sistema formativo configurato in modo tale da dare una risposta a questo cambiamento? Dovremmo chiederci non solo che cosa sono i media e le loro dinamiche (opportunità e pericoli ), come se fossero solo degli strumenti responsabili o meno rispetto alle loro funzioni o alle loro potenzialità, ma dovremmo chiederci che cosa è “il mondo”, che cosa è diventato e che cosa potrà diventare, visto che il codice software ridefinisce, ontologicamente, le sue stesse condizioni di possibilità del mondo stesso. Domande non più rinviabili. Il vero pericolo è fingere che nulla sia cambiato. Quando cambia un modo di produzione cambia tutto, decisamente tutto, persino l’idea che abbiamo di noi, della stessa soggettività e delle nostre relazioni sociali; se di fatto non siamo più nel modo di produzione industriale che ci ha accompagnato e formato nelle sue varie fasi, dalla metà del Settecento ad oggi (o quasi), ma siamo nel predominio del modo di produzione digitale; se questo non significa che non si produce più industrialmente, significa che la formazione dei valori (economici quanto sociali) viene governata dal digitale; se in questo cambiamento, che non è solo economico, ma anche e soprattutto epistemologico, si è passati dalla centralità sistemica (industriale, tecnologica, etica) del trasferimento delle tecnologie al trasferimento dei saperi, cioè dal materiale all’immateriale; se il modo di produzione industriale aveva bisogno per la propria stessa sopravvivenza, di redditività e legittimità e per il dominio del sistema di saperi divisi e di professionalità vincolate alla stessa organizzazione dello Stato mediatore e ad una sorta di burocrazia cognitiva, saperi precodificati, ripetitivi, standard, sostanzialmente mimetici ed etero diretti; se in questo scenario la creatività come l’intelligenza si configura non più nei modi del privato, ma in quelli diffusivi del pubblico con inevitabili valenze sociali; se tutto questo ha anche un minimo di plausibilità, allora è urgente chiedersi come rielaborare o superare i saperi politecnici, o quelle modalità dei saperi che hanno innervato il modo di produzione industriale soprattutto considerando che ad animare il modo di produzione digitale sono sostanzialmente saperi e creatività collettive.