La morte di Severino, un filosofo che non credeva alla morte e che tuttavia è morto come tutti gli altri, mostra l’evidente e incolmabile distanza fra la realtà e le congetture dei filosofi. Oltre a preoccuparsi della morte come tutti noi, egli pensava alla vita, ossia al divenire, come a un film, i cui singoli momenti sono come fotogrammi che si susseguono l’un l’altro, salvo riscoprirne con Nietzsche il riavvolgimento nell’assurda pellicola dell’eterno ritorno.
La normale percezione che il divenire della nostra vita sia invece, a parte questa bizzarra invenzione, qualcosa che porta dal nulla al nulla, ha spinto Severino a pensare che l’uomo abbia immaginato il rimedio di qualcosa di immutabile e di eterno, come l’essere, come Dio, o gli altri valori che ne discendono, salvo concludere con la filosofia contemporanea che questo sia un falso rimedio e che Dio non esista.
Esisterebbe quindi solo il divenire, falsamente trasformato in essere e quindi in un Dio che chiameremo anzi da ora in poi “tecnologia”. Se questa è la “follia dell’occidente” di cui parla Severino, il nostro filosofo non ne è certo immune. Egli crede che, se il divenire è, in ogni istante, l’essere, esso, al pari dell’essere sia eterno, e che siano cioè eterni anche i nostri più piccoli gesti e pensieri.
Nell’ultimo tratto di questo percorso spunta l’idea di un “oltrepassamento”, che fa pensare alla formazione di un nuovo e piccolo vulcano al centro della caldera di quello grande dopo l’eruzione di questo, come a Santorini. Si modifica il divenire ma non la spinta insopprimibile ad emergere dal profondo, andando verso la luce, che accomuna tutti gli esseri, perfino i filosofi. È questa la “felicità” che egli si immagina nei suoi ultimi pensieri?
Con un altro e veritiero paragone, le nostre vite sono come frecce che l’essere lancia verso la luce, verso il lontano, frecce che cadranno al suolo senza aver raggiunto il bersaglio, e tanto meno senza “oltrepassarsi”, ma che il divino arciere continuerà a scoccare.
I filosofi hanno pensato che questo, ossia l’invenzione di Dio o di altri ideali, fosse solo un “rimedio” inventato dagli uomini per consolarsi della disperazione della morte. Esso è invece una parte insopprimibile della loro natura, anzi il centro. Fra questo centro, che è l’essere, e la piccola vicenda dell’esistere, c’è un continuo rapporto, un continuo dialogo, come quello fra lo spirito e la materia, la morte e la vita, la notte e il giorno e mille altri esempi.
Ma una filosofia che veda solo l’essere, come quella di Parmenide, o solo un divenire che si pensi sia eterno, come quella di Severino, o solo l’idolatria di una tecnica capace di passare dalla clava alla bomba atomica, non raggiunge certo la verità.
Può esserle invece vicino “l’oltrepassamento” dell’uomo attuale per opera di un uomo nuovo, non certo però il superuomo, né l’uomo tecnologico, né il nostro filosofo prigioniero della ragnatela dei suoi pensieri, ma l’uomo in cammino verso se stesso, ossia verso la sua realtà spirituale.