Prima che finisca il 2020 è bene ricordare ciò che avvenne duecento anni fa a Napoli. Il 7 luglio 1820, i carbonari italiani e meridionali in particolare, guidati da Guglielmo Pepe, riuscirono ad ottenere da Ferdinando I Re del regno delle due Sicilie, tramite suo figlio Francesco, la prima libera Costituzione applicata su suolo italiano, con l’istituzione di un Parlamento che affiancava il re. La rivolta era cominciata il 2 luglio 1820 con la diserzione di due sottotenenti (Morelli e Salvati) e altri 127 tra sergenti e soldati dell’esercito borbonico, a cui si era aggiunto il prete Luigi Menichini e molti carbonari gridando: “Viva Dio! Viva il Re! Viva la Costituzione! e poiché il senso del motto politico non era ben compreso dagli abitanti de’ paesi e sobborghi da’ settari percorsi, ciascuno trovava in esso ciò che più ambiva. Le masse popolari han sempre d’uopo di una voce per unirsi. Più la parola di guida alla rivolta è sacra e d’interesse universale, più è efficace. Il nome di Dio è sempre il più potente a muovere i popoli” (Storia della rivoluzione di Napoli del 1820. Mariano Lombardi edit. Napoli 1864).
Durò solo un anno, la Costituzione fu revocata dallo stesso re il 24 marzo 1821, dopo che a Napoli entrò l’esercito austriaco, da lui fortemente voluto. Ma quei primi moti e quel primo barlume di riconoscimento di un regime liberale, rappresentano uno straordinario episodio di aspirazione collettiva alla libertà e all’unificazione del nostro Paese, che diede luogo a successive rivolte nel 1821 ad Alessandria e Torino, tutte represse, fino ad arrivare alle guerre d’indipendenza.
Così, dopo frammentazioni e divisioni durate millecinquecento anni, l’unità d’Italia si realizzò in soli 22 anni, dal 1848 al 1870 con la presa di Roma. Un risultato esaltante, che ha giustamente alimentato il mito del Risorgimento italiano, ad oggi la migliore parte della nostra storia nazionale.
Un risultato che ha avuto principio proprio nei moti napoletani del 1820, a cui hanno contribuito le migliori forze intellettuali meridionali. Ma dopo l’unificazione del 1870 l’Italia fu meno capace e meno coraggiosa, con gravi ripercussioni socio-politiche ed economiche soprattutto al sud; circostanza che ha fatto dire a Gaetano Salvemini: “Se l’Italia avesse avuto un altro trentennio di progresso economico, intellettuale e politico, anche l’Italia meridionale sarebbe entrata in quella che era allora la zona della ‘civiltà’. Quei trent’anni mancarono. Venne la prima guerra mondiale” (G. Salvemini. La rivoluzione del ricco. Bollati Boringhieri 2020).