Sull’Arte Contemporanea
Un amico, appassionato d’arte, storico, ma soprattutto impegnato sul fronte del contemporaneo, torna da una mostra e sbotta: “Non ne posso più di tutti questi quadretti, di queste sculturine o sculturone che si rivolgono solo a se stesse, al piccolo mondo a cui appartengono, del resto sempre più deserto. Dove pensano di arrivare, ci cambia la vita?!”
Rileggendo l’intervista rilasciata da David Foster Wallace a McCaffery, incappo nella seguente frase (riferita agli scrittori, intendiamoci, agli operatori artistici in un altro linguaggio): “Se l’artista diventa dipendente dal semplice piacere [al lettore], così che il suo vero scopo non sta nell’opera in sé, ma nell’opinione favorevole di un certo pubblico … semplicemente gli ha ceduto tutto il suo potere”.
E ancora: “Si assiste a una continua corsa avanguardistica verso il futuro, senza che nessuno si prenda la briga di ragionare sulla destinazione, sull’obbiettivo della corsa in avanti.” Il pensiero corre subito a Duchamp, all’Urinoir di un secolo fa: la liberazione contro le forme precostituite, accettate (“i quadretti, le sculturine e le sculturone”), ma contemporaneamente la sdoganatura di tutti “i giramanovella nel ruolo di angeli sterminatori.”
Eredità e mercificazione
Così “la forma diventa un anestetico (occhio all’etimologia) contro la solitudine”, una risposta “alla nostra rabbia contro la morte, la consapevolezza che prima o poi morirò e morirò in buona sostanza da solo, mentre il resto del mondo continuerà bellamente ad andare avanti senza di me.”
Ma un momento: “Una volta che in mezzo ai tuoi obiettivi (di artista) si infiltra la prima persona singolare, artisticamente parlando sei morto.” Devo aggiungere altro? Andatevela a