D’altronde Montale esprime, con fermezza, la convinzione, come già scrivemmo, che “le arti hanno un fondo comune” (in un’intervista del 1962, e nella recensione alla seconda edizione vallecchiana delle Poesie). Ne troviamo esplicita traccia nelle sue parole di presentazione per «il falò poetico di Beppe Bongi», pittore ‘occultatore’ dei suoi quadri e struggente quanto iniziatico poeta della natura maremmana.
Del resto se Filippo, con la sua pittura ‘a zampa di mosca’, a favore del quale aveva insistito l’amico di Montale, il critico Mario Bonzi, col sottoporgli una cartolina del ferrarese inviata al futurista Francesco Meriano, ecco che l’autore degli Ossi di seppia si mostra in quel momento alquanto guardingo affermando: «… Ciò dico nel caso che l’ottimo Tibertelli (Luigi Filippo) ti avesse scritto qualche insulsaggine». Ma dopo qualche anno, nelle Occasioni (1928-1939), destina, invece, al Beccaccino (1932) di Filippo, col peso delle parole di Lapo Gianni, “l’Arno balsamo fino”, i cinque versi della calzante poesia “Alla maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro”: «Una botta di stocco nel zig zag / del beccaccino- / e si librano piume su uno scrìmolo. // (Poi discendono là, sgorbiature / di rami, al freddo balsamo del fiume)».
Medesima tangibilità che ritroviamo ben materiata in C’est n’est pas tout (sic) del 1949. Un’opera da noi repertata nell’ambito di una ricognizione nei locali dello Steri-Palazzo Chiaromonte, sede del Rettorato dell’Università degli Studi di Palermo, e ora facente parte della “Quadreria Mediterranea” (già inventariata con la dizione “Vaso con Fiori” col n. 675).
Essa porta, nel verso della tela, un’annotazione di pugno dell’artista, scritta durante un ricovero bolognese in clinica psichiatrica, che inizia con le parole “C’est n’est pas tout”) – è certamente opera d’una drammatica intensità, a piene mani versata dalla sua architettura sentimentale. In essa vigono tracce cinematiche caratteristiche di quell’incedere nell’intercapedine degli spazi (così nella versificazione) ove il centro focale viene generosamente affidato alla florealità: metafora del ciclo esistenziale, della casualità tragica della vita, luttuosa, a segnare quella abilità “schermistica” efficacemente messa in evidenza da Renato Barilli, quando sottolinea per la sua opera, di «quel suo colpire di punta, o del procedere con unghiate, con rapidi passaggi del polpastrello; a patto che tutti questi interventi facciano cagliare un grumo di materia».
In tale palermitano ‘vaso di fiori’ i grumi ‘cagliati’ si offrono nell’alveo della morfologia botanica che de Pisis ama rappresentare come agitata dal brado scompiglio delle sue visioni: bianche e gialle margherite selvatiche, pansé, carnose bocche di leone, da cui traspare l’arcana sensualità naturale, agile nel ricondurci a quelle incise parole di Emilio Cecchi per cui «l’amore pei fiori non è che un’oscura trasposizione di lirismo sessuale».
Sette anni dopo i “fiori” palermitani, la sua vita è registrata dall’amico scrittore Giovanni Comisso come esistenza di un segregato: «Sembrava considerasse questa sua stanza di recluso, come una delle sue abituali e bizzarre nelle passate stagioni d’avventura» – scrive – «Non desiderava uscire da quella clinica, ritornare alla sua casa veneziana, potere guarire e riprendere la sua vita fatale e alata di un tempo, egli infine si crogiolava adattato a quella clausura, come chi invescato in un imbrogliato ingranaggio giudiziario passa da un processo all’altro, da un carcere all’altro accettando oramai di non essere più libero. Sembra impossibile, ma non vi è, più dell’anima umana, elemento al mondo maggiormente pronto a adattarsi a un vivere anche del tutto opposto a quello che fu predominante, anche se fu tra i più ribelli e forsennati».
Poi, nel ‘diario’ comissiano, ai giorni 4-5-6 dicembre 1953, si legge: «A Milano: visto De Pisis: l’ò tratto fuori dal sepolcro. Le nostre opere sono le orme dei nostri passi mentre si cammina nella vita. Egli non cammina più e non lascia piú orme»; e, lapidariamente, nel giorno 2 aprile 1956: «È morto De Pisis, mentre stavo scrivendo su di lui. I suoi quadri si fanno più vivi». Così i suoi versi, il suo «cuore che batte fuori ritmo», fluttuante come «sughero leggero», come le sue «partenze gentili».
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Noterelle per letture. Filippo de Pisis, Poesie, Vallecchi, Firenze 1942; poi, con prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 2003; Sandro Zanotto (1932-1996), Dipinti, disegni, litografie, manoscritti inediti di Filippo de Pisis, con una poesia di Diego Valeri, Neri Pozza,1969); Giuseppe Marchiori e Sandro Zanotto, 100 opere di Filippo de Pisis, Galleria d’Arte Moderna Falsetti, Prato 1969; Firenzelibri 1973; Filippo de Pisis ogni giorno, Neri Pozza, Vicenza 1996; Nico Naldini, De Pisis, vita solitaria di un poeta pittore, Einaudi, Torino 1991; Filippo de Pisis, La città delle 100 meraviglie, a cura di Bona de Pisis, Sandro Zanotto, Abscondita, Carte d’Artisti, Milano 2009; Il Marchesino Pittore, romanzo autobiografico di De Pisis, Prefazione di Sandro Zanotto, Longanesi (‘La gaja scienza’, 300), Milano 1969; Aldo Gerbino, Fiori gettati al fuoco, Plumelia, Bagheria-Palermo 2014; Renato Barilli, L’arte di de Pisis: collezione e montaggio, in De Pisis, dalle avanguardie al “diario”, Mazzotta, Milano 1993; Giovanni Comisso, Mio sodalizio con De Pisis, Neri Pozza, Vicenza, 2010.
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