Ma cos’è stata la vita percorsa da Filippo de Pisis, in quel viaggio mirabilmente sospinto dalla sua non indifferente forza propulsiva, nata non da illuminanti verità, piuttosto dal possesso di un estremo e pulsatile bagaglio di fragilità? Certo un bagaglio assetato di rapporti, di sensitive affermazioni, di saperi terrestri, di primitivi apprendistati dalla natura, capaci, come lui stesso afferma, di giustificare la pienezza di tale sua vita ben riconoscibile appena nell’essenza friabile dell’«ombra di un fiore».
Ombra, dunque, come riflesso doglioso, fugace apparizione di un se stesso mostratosi oltre una precisa volontà di redenzione, ricercata con tenacia nell’alveo delle sue brucianti scollature dalla società perbenista, e anche nello sforzo di confezionare, oggetto precipuo della sua poetica, l’osmosi più pertinente tra ‘vita’ e ‘anima’ (“L’ombra di un fiore è la mia vita”) per dipanarla, in eccesso, nel divenire della vita stessa quale «ombra taciturna su un prato a sera».
E, non a caso, tale ombra si associa a “casti pensieri” trovando il suo letto ideale “sull’onde del mare” fino a brillare, colmata dagli umori delle esistenze, nella tremula lanterna fatta da un’«ombra di una lucciola», quasi a riscaldare, pur nel suo infinitesimo potere di calore, un amore occasionale, il rimbrotto gemmato da un colloquio pronto a restituire o perfino a tradire le memorie famigliari, a riportarlo comunque e sempre, in qualunque parte d’Europa egli si trovasse (soprattutto nella Parigi che alimenta la sua maturità d’artista e di poeta), nella atmosfera della sua Ferrara o ricondurlo, vagolo, tra le acque palpitanti di Venezia. Quell’ombra – scrive – proiettata «nel verde cupo / è la mia vita ora. / E che mi importa del resto?».
Un suo olio del 1925, Natura morta con ritrattino, restituisce, in tutta la sua pienezza creativa, i temi che avvincono mente e anima di de Pisis: gli immancabili fiori selvatici, margherite, piccoli crisantemi ornamentali, mimose; posti come a simulare un domestico boschetto floreale sul margine esterno del tavolo, alimentati dall’acqua posta in due recipienti incorniciano un ritrattino raffigurante un giovane uomo che alza il calice, dai fianchi avvolti da una fusciacca nerissima, mentre un sottile foulard scuro annoda il suo collo, e delle ‘ballerine’ nere inguainano dei piedi fusati, quasi femminili.
Un corpo oscillante in un fondale di biacca addensata e che, per alcuni aspetti, rimanda a quella foto di Filippo, quando, a 31 anni, per il Bal de Caz’arts a Parigi (1927), indossa un singolare costume, e che, pur nella sostanziale diversità, si avvicina all’elemento pittorico, in virtù della postura generale, e, forse ancor più, per quel naturale tentativo alla danza, all’ascensione corporea. A tali elementi, al centro del tavolo, si accostano una farfalla ed un cuore mollemente adagiato su di un giaciglio di carta bianca. La farfalla è una ‘Vanessa Atalanta’ (detta ‘Vulcano’) che ritroviamo nell’interezza solare e malinconica della poesia dedicata a Montale, Vanessa nel sole.
Agli occhi del poeta è la «sepoltura dell’estate», in una giornata novembrina, ad accogliere la vanessa Atalanta; essa nel suo moto vibratile «fugge entro pareti d’ocra / e polveri rare». Il lepidottero, appartenente alla gloriosa famiglia Ninfalide (de Pisis subiva il fascino delle curiosità botaniche ed entomologiche), non è per il poeta che uno struggente ectoplasma, non può far altro che riflettere i meriggi d’una fanciullezza ormai tramontata, ma pronta ad affrontare l’artista con l’urto della sua aerea forza, e, in quella sua adorna delicatezza, gli fa dire in quale modo: «intesse con raggi di sole / uno strano velario / fra me e il dolore». Ma in tale “velario di dolore” sta la rugginosa presenza del cuore enucleato dal corpo, quel cuore che, come attesta in Ombre, «non fa ombra» e dove il rapporto entomologico con quello anatomico si fa stringente; e insieme: ombre, lepidotteri, cuore e turbamenti, mente e dolore s’inseguono agitati da una strenua ansia.
Così opportunamente rileggiamo: «Non son farfalle, son ombre leggiere / sui muri bianchi e grigi / del ricordo. / Ombra d’una mano / levata a benedire, / ombra di un fiore / che non ebbe mai stelo / (il cuore non fa ombra). / Delicate parvenze / profumi / melodie / che prendon palpito / solo quando cala la sera. / Ombre caste / della nostra / felicità apparente. / Non son farfalle, son ombre leggiere.»
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