Lo schema, o provocazione che dir si voglia, è riconducibile alle dinamiche che fanno capo alla secolarizzazione, cioè alla progressiva autonomia della politica dalla religione e, di seguito, alla separazione tra la religione e il sacro. La secolarizzazione sarebbe il tratto saliente della Modernità che articola da una parte la secolarizzazione come emancipazione e dall’altra individua nella desacralizzazione ciò che libera nel bene e nel male il nichilismo per alcuni versi patente alla stessa Modernità. La secolarizzazione decreta il potere assoluto della soggettività e la relativizzazione del bello o se vogliamo la vittoria del bello soggettivo.
Durkheim, tanto per ritornare ai classici della sociologia, ritiene che la crisi progressiva della religione porti alla sacralizzazione della persona e al culto dell’individuo, e, nel contempo Max Weber interpreta la Modernità come disincantamento e vittoria della razionalità strumentale che, ovviamente, si muove come un soggetto astratto o meglio come un soggetto collettivo. Ad esempio nella forma della burocrazia. Da una parte la sacralizazzione del soggetto, dall’altra la massa come astrazione, omologazione, collettivizzazione, universalizzazione etica.
Se queste argomentazioni hanno un minimo di senso è evidente che
- esiste una radicale differenza tra l’idea e le pratiche che vanno ricondotte al bello oggettivo e quelle che possono essere attuate nel bello soggettivo;
- b) che c’è stato un superamento del bello oggettivo da parte della socializzazione del bello soggettivo; che il primo era normativo e il secondo è dissipativo. Il primo procedeva per cogliere l’essenziale, il secondo per disperderlo. Il primo tendeva all’universale, il secondo al singolare. Siamo quindi all’interno del predominio del bello soggettivo o della relativizzazione del bello e la sua forma fenomenica è il kitsch. O per lo meno è così per me, e lo era anche per Livio Vacchini.
IL BELLO TEOLOGALE
Per ora vorrei tornare all’intreccio proposto vedendolo da un particolare punto di vista: quello di chi non ha accettato o non vuole accettare la separazione tra il sacro e il religioso e soprattutto, nella secolarizzazione, tra la religione e il mondo. E’ tra costoro che nobilmente ritorna (inevitabilmente) il rapporto tra il bello, i trascendentali, l’umano e il divino.
Ne considero il caso forse più significativo, problematico e filosoficamente denso: Von Balthasar che Henri de Lubac ebbe modo di definire “l’uomo forse più colto del nostro tempo”. Von Balthasar intende ritrovare l’unità tra teologia e metafisica sviluppando una teologia cristiana “alla luce del terzo trascendentale, di completare cioè la considerazione del verum e del bonum mediante quella del pulchrum”. Per Von Balthasar, come per altro anche per Enrich Przywara, la teologia è “riduzione al mistero”, un mistero che, pur rimanendo sempre tale, si apre all’uomo nella rivelazione, si offre alla vista nella luce grazie alla bellezza. La bellezza si presenta così nella Gloria. L’apparire come bellezza permette alla forma di non risolversi nell’aspetto formale della realtà, ma di presentarsi come la struttura concreta dell’essere che è sempre dotato di una unità che “informa”, pervade ed eleva gli elementi costitutivi del tutto. E’ la bellezza che permette di cogliere “la verità del tutto, la verità come proprietà trascendentale dell’essere” che non costituisce una grandezza astratta “ma il legame vitale tra Dio e il mondo”. Scrive nel suo monumentale testo Gloria: “La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata sensata quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza”.
Scrive von Balthasar riferendosi all’estetica greca intesa non come filosofia dell’arte bella, ma come aisthesis, come percezione sensibile: “Prima che l’estetica venisse ridotta dal tardo razionalismo (Baumgarten) e dal criticismo (Kant) a una scienza regionalmente delimitata, essa era vista – nel complesso della tradizione – un aspetto della metafisica in quanto scienza dell’essere dell’ente, e fino a quando per “essere” si intese l’ultimo elemento fondante della molteplicità del mondo, la metafisica era inseparabile dalla teologia. Ora, a quel modo che il vero e il bene frammentario e transitorio del mondo, per essere comprensibile, venne ancorato a un vero e bene imperituro e totale, così anche il bello che brilla per contingenza venne ancorato in una bellezza assoluta e immortale che ha la sua patria nelle intatte arkai dell’essere: presso gli “dei”, nel “Divino”, in Dio. Per Von Balthasar da Omero e Pindaro attraverso Platone, Aristotele, Plotino, il primo e l’alto medioevo cristiano fino al rinascimento e al barocco regge l’intuizione che chiama “estetica trascendentale” nel senso che il kalon (in quanto realtà salva, sana, splendida, bella) è una delle determinazioni trascendentali dell’essere come tale.
E’ chiara la critica al nostro tempo e al dominio del bello soggettivo, ma l’alternativa in questo caso non è il bello oggettivo, ma una sorta di condizione teologico-misterica e pre oggettiva della bellezza, una sintesi tra il vero, il bene e il bello nella unità tra la religione, la sacralità e la metafisica. Capace, per altro, di tenere assieme la filosofia greca antica con il cristianesimo.
C’è quindi una estetica del bello oggettivo, del bello soggettivo e del bello teologale.