E’ così che possiamo, sempre in chiave oggettivistica, trovare la dottrina del bello come ordine e simmetria “… da una grandezza adatta ad essere abbracciata nel suo insieme da un solo colpo d’occhio” (Aristotele). Emerge qui un’altra condizione della bellezza oggettiva, quella dell’unità che è ovviamente legata all’identità. Per esemplificare il bello doveva essere identico a se stesso, riconoscibile nella propria unitarietà (e quindi per alcuni aspetti anche singolare) e retto da regole compositive universali tali da far percepire una condizione “senza tempo”. Ciò che noi chiamiamo il classico e che collochiamo di volta in volta in un tempo o in uno stile, cioè in un linguaggio specifico, in realtà nasce per essere senza tempo e per porre l’idea stessa di identità come forma assoluta.
Ripetiamo: il bello come bene, come verità, come ordine, è quindi un bello oggettivo che trascende le pulsioni e gli stessi interessi dei singoli soggetti. L’opera bella in questo caso avrà sempre delle leggi formali specifiche e metastoriche. Il presupposto è la metafisica. Nel linguaggio della storia dell’arte questo è il classico.
IL BELLO SOGGETTIVO
Questo orizzonte (configurazione) del bello oggettivo perde il proprio radicamento per una serie di motivi che non possono essere riassunti in questa occasione, ma posso segnalare quello cruciale: l’emergere di una soggettività, quella che chiamiamo moderna, tra la fine di ciò che chiamiamo Medioevo e l’inizio della Modernità, diciamo con l’Umanesimo (anche andrebbero fatti numerosi distinguo. Tant’è!). Si può pensare al bello soggettivo in quanto alimentato dall’orgoglio o dalla presunzione del soggetto che si erge ad arbitro di sé e del mondo, dalla volontà di potenza (avrebbe detto alcuno), dal fascino vertiginoso della varietà e della differenza, dal : “io faccio, e ne faccio, come voglio!”, dalla inclusione e manipolazione della temporalità. Il bello soggettivo tende a vivere l’attimo e non l’eterno, si innamora e fa innamorare della caducità e dell’occasione. Esattamente ciò che rifiuta l’oggettività del bello che si misura con il senza tempo e ricerca regole assolute.
Il bello soggettivo non ha più una valenza ontologica, non è più come per Platone la manifestazione del bene, o della perfezione, dell’unità dell’ordine e della simmetria, come per Aristotele.
Dal Seicento in poi, nel tentativo di trovare delle leggi universali non solo per ciò che verrà chiamata scienza sperimentale, ma anche per il vissuto e per le sensazioni, quindi per i modi del percepire, la filosofia si interrogherà sulla questione del gusto, in particolare attorno alla domanda: come e perché soggetti diversi percepiscono in modo non uniforme le sensazioni? Detto in altri termini è possibile una scienza esatta e sperimentale anche per tutto ciò che riguarda la soggettività? Se si fosse trovato il modo di oggettivare le modalità della percezione sensibile si sarebbe risolta da una parte una contraddizione che veniva da molto lontano, e più precisamente dall’idealismo greco classico, che separava nettamente percezione sensibile (aisthesis) e pensiero (nous), cosa che invece la scienza moderna prova a tenere assieme, e, nel contempo, si sarebbe anche trovato il modo di controllare le passioni e quindi i molti aspetti del sociale e del politico.
La soggettività, in particolare quella che emerge nelle forme del Moderno, il vir faber fotunae suae, non accetta di sottomettersi all’universale, se non elaborando un patto. L’esito più significativo del patto sarà la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo con la conseguente rivoluzione francese.
Le riflessioni attorno al gusto, che hanno occupato una parte consistente del dibattito filosofico tra Sei e Settecento, trovano il loro “coaugulo” con la nascita dell’estetica a metà Settecento, e il bello assume la forma della dottrina della perfezione sensibile. In questo cercando ancora una propria ragione universale. Perfezione sensibile significa da un lato rappresentazione sensibile perfetta, dall’altro piacere che accompagna l’attività sensibile. Ambedue però si ponevano il problema di determinare i caratteri che fanno del piacere sensibile ciò che si usa chiamare bellezza.
Il tentativo di trovare nella infinita varietà del gusto delle leggi universali non troverà soluzione: pensiero e percezione sensibile, nonostante la potente presunzione della scienza moderna, rimarranno conflittuali. L’ultimo tentativo verrà formulato da Kant nel momento nel quale individuò il carattere fondamentale del bello, cioè il disinteresse. E’ così che può definire il bello come “ciò che piace universalmente e senza concetti” (Critica del Giudizio) insistendo sull’indipendenza del piacere del bello, da ogni interesse sia sensibile che razionale.
Scrive: “Ognuno chiama piacevole ciò che lo soddisfa, bello ciò che gli piace, buono ciò che apprezza o approva, ciò a cui dà un valore oggettivo. Il piacere vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini nella loro qualità di essere umani ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono ragionevoli ma in quanto sono nello stesso tempo animali. Il buono ha valore per ogni essere ragionevole in genere” (Critica del Giudizio).
Kant distingue anche tra il bello libero e il bello aderente. Il primo riguarda le bellezze naturali libere come i fiori e non presuppone un concetto di ciò che l’oggetto deve essere, a differenza di quello che accade ad esempio nel valutare una architettura: si dovrà inevitabilmente tener conto dello scopo. Il bello sarà quindi aderente. Così Kant! In realtà quello che sta avvenendo è l’accettazione della impossibilità epistemologica di uniformare oggettivo e soggettivo, il riconoscimento che esistono due verità quella della scienza e quella dell’arte, del generale e del singolare, del concetto e dell’intuizione o se vogliamo dell’oggettivo e del soggettivo, dell’universale e del singolare. In altre parole questa è la crisi di quell’unità che sottostà ad ogni metafisica sia antica, sia moderna; crisi sintetizzata dalla nota frase kantiana: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Con Kant il bello divenne un valore o meglio una classe di valori, tutti però con una contraddizione potremmo dire ontologica: sono valori che nascono dalla superfluità, cioè da ciò che per propria natura non può avere valore. Questo è il paradosso della nostra Contemporaneità, e non solo nelle arti.