Per lungo tempo ho dialogato con Livio Vacchini parlando un po’ di tutto. Ciò che ci univa era, ovviamente, la passione per l’architettura, ma si parlava proprio di tutto: di musica, di cibo, e, come si dice, di donne e motori. Era semplicemente amicizia e questa, dopo dieci anni dalla sua morte, ancora oggi, mi appartiene perché fatta di ricordi, ragionamenti mai risolti, emozioni che ritornano. Quando guardo con attenzione una qualche architettura penso sempre cosa ne avrebbe detto Livio Vacchini.
Un giorno, mentre si stava lavorando sul libro che abbiamo poi intitolato Capolavori, mi disse: “Sai Roberto, la cosa fondamentale sarebbe capire bene che cosa è il kitsch”. Era come se avesse trovato all’improvviso il bandolo di una matassa, molto molto complicata. Guarda caso, in quel periodo, stavo lavorando per un corso sul kitsch alla Facoltà di Laurea in Arti e Design dell’IUAV. Non dissi nulla. Anche io ero alla ricerca di qualcosa che mi facesse capire sino in fondo la questione non tanto del kitsch, ma del perché ne siamo per molti aspetti invasi.
Quel “Sai Roberto…” diventò per me una sorta di tormento, anche se mi aiutava, visto che mi dava immediatamente una chiave di lettura del suo lavoro: mai cadere nel kitsch, nel pittoresco, nell’emotivo o espressivo, nel nuovo per il nuovo, nelle logiche del gusto, buono o cattivo che sia, o nell’avere una qualche idea. Non una “cifra” interpretativa di poco conto rispetto al suo lavoro.
Ricordo che allora usavo dire ai miei studenti che avere una idea non significa pensare, e che per il progetto (non solo di architettura) non è fondamentale avere una qualche idea, anzi! É persino pericoloso, è invece fondamentale pensare. Volevo far capire che non dovevano fidarsi di ciò che tradizionalmente viene chiamata creatività e che l’intuizione è utile solo se unita con la ragione. Indubbiamente anche questa era una sintonia con Livio Vacchini.
Quello che per me risultò in quel momento chiaro era che in gioco non c’era solo la questione del kitsch, cioè del cattivo gusto, ma soprattutto ciò che sta attorno alla domanda: “Che cosa è oggi la bellezza? Dobbiamo ancora affrontarla seguendo la domanda se è oggettiva o soggettiva? Se deve valere è per tutti o solo per me? ”
Mi risultò in qualche modo chiaro che il kitsch è contrapposto al bello oggettivo e che si impone là dove domina una dimensione tutta soggettiva del bello. E allora le domande diventavano:
-è forse finita l’età del bello oggettivo? Quella – per intenderci – della tradizione classica?
-quando e come è nata quell’età e perché si è dissolta, se si è dissolta?”
-siamo forse oggi nel dominio del bello soggettivo? Vedi pop, postmodernismo e decostruttivismi vari?
-e questo significa semplicemente che ognuno singolarmente percepisce e vive come gli pare la bellezza? O fa ciò che vuole del progetto?
-e questo è il totalmente relativo oppure è – in un esito paradossale – l’oggettivazione del relativo? La massificazione del soggettivo per ritrovarci, tutti, e ripeto tutti, omologati in una totalità estetica?
-siamo paradossalmente forse diventati tutti uguali perché tutti diversi?
Ecco allora che trovo opportuno proporre alcune riflessioni, anche se inevitabilmente più che schematiche, attorno alla bellezza (oggettiva? soggettiva? o al di là delle logiche dualistiche?) e al Kitsch (come cattivo gusto o come estetica di massa?), per poi interrogarci sul modo di progettare e costruire di Livio Vacchini e sul perché voleva capire il kitsch, o, meglio, voleva fare il possibile per non farsi inghiottire dal kitsch. Con una premessa: affrontare il tema della bellezza fa tremare i polsi per l’estensione e per le problematiche che mette in gioco e non ho di certo la pretesa di darne conto o di risolverlo. Potrò solo rendere esplicita una specie di ipotesi di lavoro o delle considerazioni tutte da provare. Insomma mi accontento di giocare su una serie di provocazioni.