Il presidente Trump ha dichiarato che con questa pandemia l’epoca della delocalizzazione, durata quarant’anni, è finita. Non sono stati in molti a dargli torto e la ragione è evidente. Per quattro decenni enormi quantità di capitali europei e statunitensi sono stati investiti in Cina per realizzare prodotti ad alta intensità di lavoro, pagando cifre ridicole la manodopera e rivendendo in tutto il mondo tali prodotti con lauti guadagni. Centinaia di milioni di cinesi sono passati dalla più nera povertà a un regime di dignitosa sussistenza. Le élites del Partito guida hanno tratto profitti spropositati da tali operazioni commerciali, ostentando alla fine stili di vita che per lusso e sfarzosità superano di gran lunga quelli dell’impoverita classe media americana.
Ma ora Trump, interpretando sia gli umori dell’elettorato americano, sia le complesse strategie elaborate dai cervelloni del Pentagono e dai politologi statunitensi, sta portando avanti una specie di rovesciamento delle alleanze. Se 40 anni fa Kissinger suggerì a Nixon di finanziare lo sviluppo della Cina per indebolire l’asse Mosca Pechino, oggi è arrivato il momento di costruire buone relazioni con Putin e isolare la Cina in Asia e nel mondo.
Che il grande Donald flirtasse con il Cremlino già prima della sua elezione è stato dimostrato dai tanti episodi lasciati volutamente in ombra dalla Commissione d’inchiesta del Congresso. Lo stesso si può dire della sua ostilità al 5G e dei contatti con i leader di Taiwan finalizzati ad assicurare l’appoggio Usa alle pretese di indipendenza dell’isola, anche in contrasto con gli impegni internazionali assunti con Pechino nel 2014. Le grandi multinazionali dell’informatica, e non solo, non hanno perso tempo nel fare i bagagli e trasferire le loro strutture in altri Paesi dell’area.
Trump, in gennaio, costringeva i negoziatori cinesi ad accettare la cosiddetta «fase1» di un oneroso accordo commerciale che prevede l’acquisto di beni agricoli americani per 200 miliardi di dollari. Il Presidente non risparmia proiettili propagandistici contro Pechino e dallo studio ovale piovono le accuse più diverse: quella di aver creato artificialmente il virus – che poco convince i ricercatori -, di praticare la pirateria informatica su vasta scala, per non parlare poi delle ambizioni di controllo del Mar Cinese Meridionale da parte delle forze armate del Dragone.
In un’intervista a FoxNews il Presidente Trump ha dichiarato che nel caso di una rottura totale dei rapporti commerciali con la Cina, gli Usa risparmierebbero circa 500 miliardi di dollari. Quindi la prospettiva non è da scartare a priori. L’opinione pubblica internazionale è abituata alle boutades del grande Donald, ma in questo caso le reazioni sono state molto preoccupate. Che sia in corso un’escalation sempre più dura con Pechino è sotto gli occhi di tutti. Ed è un’escalation che non risparmia nessuno, accusando Trump sia le Nazioni Unite sia l’OMS di essere troppo accondiscendenti con i cinesi, al punto di escludere Taiwan dall’assemblea sul Covid 19, che l’isola ha combattuto brillantemente. Fino al 20 maggio i cittadini americani hanno visto morire 91.938 loro congiunti a causa del «virus cinese» e i falchi della Casa Bianca hanno fatto il possibile per orientare l’ostilità collettiva contro Pechino.
Secondo un’indagine di Deutsche Bank il 41% degli americani dichiara che non acquisterà più prodotti cinesi e il 35% dei cinesi dice lo stesso dei prodotti americani. Secondo un altro sondaggio, condotto da FTI Consulting di Washington, il 78% degli americani sarebbe disponibile a spendere più denaro per acquistare prodotti di aziende che abbandonano i loro impianti in Cina. E infine si moltiplicano nei confronti di Pechino le pretese di risarcimento da parte di enti e singoli soggetti privati, in Gran Bretagna, in India, in Germania, in Italia, ecc. Trump ha promesso che alla fine presenterà il conto a Pechino, precisando che sarà molto salato. Il nazionalismo commerciale avanza a passo di carica.
Per i Paesi in via di sviluppo che avevano accettato prestiti cinesi, e già incontravano difficoltà a onorarli, la situazione è divenuta più drammatica a causa delle conseguenze dell’epidemia. Tentano di ristrutturare il debito, ma il governo di Pechino non mostra disponibilità in tal senso – tranne che in qualche caso – dando ragione nei fatti agli osservatori che lo accusavano di attirare nazioni povere nella «trappola del debito». Nel frattempo l’aeronautica americana ha trasferito nella base di Guam 200 piloti da caccia e ha dispiegato in zona i bombardieri B1. Mentre nei cieli dello stretto di Taiwan sfrecciano a breve distanza l’uno dall’altro aerei da combattimento di ambo le parti, nelle acque che separano l’isola «ribelle» dalla Cina si fronteggiano minacciosamente navi delle due Marine da guerra, impegnate in pericolose esercitazioni. Un possibile incidente – casuale o voluto – è dietro l’angolo. La via della seta è veramente in salita.