Per molto tempo, i fotografi hanno sognato di competere con i pittori (e non il contrario, come spesso si sente dire). Ciò si è manifestato prima nella composizione di paesaggi e poi si è esteso a tutti i generi. Anche i pittori volevano competere con la fotografia, soprattutto per i ritratti. Ma questo ha portato a una forma di accademismo insignificante. A poco a poco, diciamo soprattutto dagli anni Venti in poi (cioè più di cento anni fa), sono stati fatti molti tentativi nella direzione della sperimentazione pura.
E ben presto, grazie al progresso tecnico, quello che era appannaggio del semplice reportage poté entrare nel campo di questa voglia di passare dalla quotidianità, dalla vita laboriosa, dalla movida notturna o dalle vedute della città o addirittura nel cuore della campagna, a una ricerca sofisticata che può essere paragonata all’arte più pura. Insomma, la fotografia ha letteralmente preso il sopravvento sull’arte contemporanea dopo essersi affermata tra le due guerre. I nomi di Man Ray, Josef Sudek, Alfred Stieglitz si sono insinuati nel pantheon della nostra modernità sempre più radicale.
Christophe Cartier o l’arte di rappresentare il desiderio
Christophe Cartier non sentiva il desiderio di mettere la fotografia contro la pittura o di far sì che il cliché potesse essere scambiato per un dipinto a forza di varie manipolazioni elettroniche, sempre più sofisticate, ma anche sempre più accessibili. Non ha cercato di raggiungere prodezze tecniche o di attribuire alla fotografia virtù che si applicano all’arte pittorica. L’idea alla base del suo approccio creativo è quella di cercare di confondere la tecnica della pittura con quella della fotografia. Va da sé che è impossibile potersi
illudere sull’uno o sull’altro modo di fare le cose. Ma si possono stabilire connessioni e congiunzioni. Fondamentalmente, ogni tecnica ha il potere di accentuare o diminuire il potere dell’altra. Questo alla fine ha dato origine a un nuovo modo di comporre un dipinto.
Le modelle di Christophe Cartier
Il mondo interiore di Christophe Cartier è, per la maggior parte, composto da modelle femminili, più o meno nude. In un certo senso, si può dire che il soggetto delle sue opere è il modello e non ciò che potrebbe rappresentare. Mi ricorda gli ultimi dipinti di Pablo
Picasso, dove c’è solo il pittore anziano, il modello e il dipinto che il primo intende realizzare a partire da questa figura offerta. Per il grande maestro è quasi un’ossessione sia estetica che erotica. In tutt’altro spirito, troviamo questi due assi maggiori che sono i pilastri della sua ispirazione. La grande differenza è che le donne di Cartier sono piuttosto realistiche, anche se i colori danno loro un aspetto un po’ irreale. Penso al periodo precedente, che chiamò Ofelia, che non si riferiva molto a William Shakespeare, ma alla sua unica eroina tragica, che annega per porre fine alla sua vita. Per l’artista non si tratta di riprodurre questo momento fatale, ma piuttosto di posizionare i suoi modelli, facendo loro adottare varie pose legate all’acqua.
In realtà, a mio avviso, si tratta di una fantasticheria che ha perseguito di quadro in quadro, di modello in modello. Si tratta quindi di una sorta di introspezione onirica in cui dà vita – ma una vita fittizia attraverso la pittura e la fotografia, legate tra loro o meno – per dare vita a una figura non più reale, ma metaforica. Così che il disegno erotico si esprimeva in questi annegamenti e in queste immersioni nell’elemento liquido. Non c’è alcun riferimento esplicito all’antichità o, se è per questo, alla storia antica o alle religioni.
Le “invenzioni” di Cartier
Ma questo desiderio di produrre un soggetto contemporaneo non elimina le reminiscenze di miti storici e astrazioni. Utilizza una sorta di mise en abyme di temi antichi che hanno attraversato i secoli e ispirato poeti, romanzieri e drammaturghi. Le sue Ophelia sono
invenzioni che rispondono solo alle sue fantasticherie più fantasmagoriche che si trasformano in dipinti in cui il modello fotografato viene trasferito in un altro modo di concepire la mitologia. Le sue fotografie sono più o meno dipinte o ridipinte e contribuiscono alla creazione di un universo che, seppur molto personale, può essere condiviso con gli altri. Insomma, abbiamo ancora, così come siamo, frammenti di insegnamento che riaffiorano, come l’amante povero, vittima dell’abbandono.