FABIO MUGGIA –
Parte da Montecarlo la prima edizione del Premio internazionale PDO dedicato alle imprese. Ne riferisce l’ideatore e membro del Comitato Scientifico Cesare Casati, architetto, designer, animatore culturale, già direttore di Domus e tutt’ora di L’Arca da lui fondata nel 1986.
Questo 2019 è il centenario del Bauhaus. Quali sono gli stimoli che l’Europa può ricevere da questo avvenimento? Quale insegnamento si può ancora trarre dal Bauhaus?
“Ho paura che sia un po’ archeologia ormai, perché il modo di vivere è completamente cambiato, gli utensili per vivere sono cambiati. Oggi cogliamo le cose con una velocità immediata, ne prendiamo coscienza quasi in tempo reale. Solo vent’anni fa ci volevano dei giorni, cent’anni fa quasi degli anni. L’esperienza del Bauhaus è stata molto importante, ma è una situazione irripetibile, unica per quell’epoca”.
Lei fa parte del comitato scientifico (con Miguel Arruda, Toshiyuki Kita, Angelo Cortesi, e altri) del premio MDO Montecarlo Prize 2019, organizzato dalla rivista «l’Arca International”, da lei diretta. Quale l’obiettivo principale?»
“Il Premio nasce nel Principato di Montecarlo, città conosciuta in tutto il mondo per pochissime cose: il Casinò, il Gran Premio, la marmellata di ricchi che vi abitano. Ha pochissime iniziative culturali. Proprio per questo il Principato ha sentito la necessità di disporre di un evento internazionale significativo. La rivista, che peraltro ha sede a Montecarlo, si dedica all’architettura e al design soprattutto, e all’arte. Ci si è resi conto che, fra le centinaia di premi di tutti i generi, non ce n’è uno dedicato alle industrie impegnate in prodotti di qualità”.
Come si svolge?
“È stato nominato un comitato, una ventina di protagonisti del design e dell’architettura. Essi hanno segnalato un migliaio di aziende in varie parti del mondo. Ne sono state selezionate una cinquantina, da undici nazioni diverse. In novembre la giuria internazionale assegnerà il premio nell’ambito di sei categorie, tra cui la sostenibilità ambientale. I risultati lusinghieri ci spingono già a pensare a una seconda edizione”.
Sembrerebbe che il meglio del design venga ancora realizzato nel Vecchio Continente, dato che si tratta in maggioranza di aziende europee, a parte presenze giapponesi, statunitensi o i vicini-lontani confederati svizzeri.
“Si torna al discorso di quanto sia cambiato il sistema della comunicazione. La rivista è diffusa maggiormente in Europa dove la cultura del design è più sviluppata. Comunque segnalerei, la partecipazione di un’azienda australiana. L’Europa non si distingue più per la ricerca scientifica, ma per la della qualità del progetto. Tornando al Bauhaus, quella è stata la “scuola elementare” che ha creato la necessità di portare il progetto anche a livello del prodotto”.
Secondo lei, l’Unione Europea è consapevole di questa eccellenza rappresentata soprattutto da Italia e Germania? E in ogni caso, in che modo essa è tutelata?
“Certamente sono le due economie che, in questo campo, esprimono ed esportano di più. Ma non credo che l’Unione Europea ne sia consapevole, basti pensare a come trascuri la cultura dell’architettura, non sono certamente le nostre scuole a eccellere. In realtà, la scuola di architettura che oggi sta esprimendo maggiore varietà e ricerca è forse quella cinese. La Cina vent’anni fa ha investito delle somme gigantesche nella formazione e oggi le sue università sono uno spettacolo. Hanno proprio fatto la scelta politica di investire molto nella cultura, cosa che l’Europa continua a non fare”.
Italia, Germania, ma anche Francia e Nord Europa. Spesso, il dibattito politico in Italia è pieno di diffidenza dei confronti dei Paesi UE d’Oltralpe. Esiste rivalità anche nel campo del design?
“Se parliamo dell’Italia, come sempre noi lottiamo per le ultime posizioni. Questo anche per la situazione drammatica dell’università italiana: metà dei docenti sono a contratto, non scelti tra le eccellenze, ma nei livelli meno qualificati. Cattedre coperte non in base alla qualità, all’esperienza e alla ricerca, ma per ragioni di clientelari tipiche dell’Italia. Dirigo l’Arca ormai da quarant’anni e il fatto di averla collocata in una zona neutra, o neutrale, è molto soddisfacente, perché si può veramente ragionare a livello europeo. Vedere le cose da Montecarlo è molto diverso. Contrariamente a quanto detto, però, le aziende italiane sono collocate molto bene nel mercato. Talune sono veramente esemplari, concorrono alla pari, se non meglio, con il resto del mondo. Questo vale anche per la Germania. Il problema semmai è nel fatto che l’economia non partecipa mai a scelte di tipo culturale. Quindi molti operatori del campo della cultura possono risultare penalizzati”.
Come si muovono le aziende europee produttrici di design rispetto alla UE?
“Ormai per queste aziende l’Europa è un continente unico, quasi una nazione unica, sicuramente un mercato unico”.
Immagino che questo mercato si espanda anche ben oltre gli stretti confini della UE, com’è questo passaggio in uscita? Quali impressioni si avvertono fuori dall’Europa?
“Quando mi trovo in paesi extra-europei, l’Europa è sempre considerata un luogo di qualità, lo stesso avviene per l’Italia. Negli Stati Uniti o in Cina, quando un prodotto è europeo, non è mai scadente, ma sempre di qualità. Mentre noi consideriamo sempre scadenti i prodotti cinesi. In realtà, oggi anche loro hanno dei grandi prodotti di qualità. Hanno imparato a realizzare la tecnologia, cos’è il disegno del prodotto, e molte altre cose. Il problema europeo è questa eredità culturale che gli altri non hanno. Non so se sia una radice classica che il mondo orientale non ha. Oggi in Cina sono autonomi nel progettare qualunque cosa. Hanno scuole, per esempio a Shanghai, che sfornano decine di migliaia di professionisti all’anno, e dove sono andati a insegnare i migliori di tutto il mondo”.
Esiste una linea di design, nuova o storica, che oggi possa dirsi direttamente europea al di sopra delle Nazioni che compongono l’Unione?
“La globalizzazione è avvenuta anche nell’estetica. Come avviene per l’architettura, oggi è difficile individuare se un progetto sia americano o cinese, tedesco o italiano, proprio per quella velocità di informazione di cui ho parlato prima. La velocità di acquisizione di immagini è tale che tutto viene ibridato in un unicum mediato dalla creatività di ciascuno. È difficile trovare originalità, quello che una volta veniva chiamato lo stile e identificava percorsi di linguaggio differenti. Oggi veramente il linguaggio è globalizzato”.