Cara, mi dispiace moltissimo, non sai quanto… Ci si vede presto, d’accordo? La Betta ti salutava così al telefono quando non sarebbe riuscita a raggiungerti a una cena o a un tè a casa di qualcuno. Laureata in filosofia alla Statale di Milano, si era fermata qualche anno ad Heidelberg per il dottorato e poi era tornata a Palermo per fare la creativa. Noi non avevamo ben chiaro cosa facesse, era però sempre impegnata in riunioni, conferenze, partenze per Roma, per il nord o anche per l’estero. Sapevamo anche che non si perdeva le più importanti marce per salvare il pianeta da qualcuno dei maggiori rischi che correva. Ambientalista, animalista, vegana, no global, no vax, no tav. Era tutto. Quando veniva a trovarti a casa, non sapevi dove nascondere il pacco dei bicchieri di plastica che tenevi nella dispensa nel caso ci fossero problemi di acqua o ti venisse l’influenza e non avessi l’energia per lavarti quelli di vetro. Avresti voluto mostrarle un attestato di buona condotta per il fatto che,pur nel silenzio, il tuo contributo a un mondo migliore lo davi anche tu. Ma non esisteva questo genere di attestati e poi la Betta, pure se gliene avessi parato uno davanti con tutti i timbri possibili, ti avrebbe guardato dritto negli occhi e fulminandoti con il suo bel sorriso ti avrebbe detto: ma sì, non preoccuparti, ognuno fa quel che può. Di qualsiasi questione lei e i suoi collaboratori si stessero occupando, si trattava sempre di un gruppetto di folli che si erano presi a cuore una cosa e ci stavano dando dentro fino a non trovare più il tempo per i propri bisogni primari. Diceva questa cosa dei folli sorridendo a occhi bassi come tra sé e sé e scuotendo leggermente la testa, come fanno le mamme quando parlano delle monellerie dei loro bambini, che per il resto però sono degli enfant prodige. Come ogni creativa che si rispettasse, la Betta non portava mai maglioni della sua misura; compariva sempre con finti o veri maglioni fatti in casa dalle maniche lunghissime che le coprivano metà mani. Scollatissima sotto, si faceva avvolgere da uno sciarpone di lana grossa e soffice che le lasciava scoperto il décolleté. I capelli, lunghi e sottili, erano sempre raccolti alla meno peggio in una sorta di chignon fermato da un elastico o anche da una matita colorata, l’importante era che somigliasse il più possibile a qualche mezzo di fortuna recuperato mentre faceva cose creative. Una volta l’aveva bloccato con un pennello, e lì l’avevo guardata proprio male: diceva di non saper disegnare neppure la O col bicchiere, figurarsi dipingere. E poi il pennello no, quello non poteva diventare parte di un travestimento! Un giorno era passata a trovarmi perché le serviva un numero del ’72 dei Quaderni del Conoscitore di Stampe; dopo anni che frequentava la mia casa, l’ultima volta che c’era venuta aveva scoperto che possedevo una miriade di cose interessanti, così mi aveva “promesso” che qualche volta sarebbe passata a rovistare un po’ per un lavoro che le avevano affidato. Era arrivata una mezz’ora prima rispetto all’orario stabilito e io ero ancora alle prese con un dipinto informale che non riuscivo a domare. Le avevo aperto la porta in camice, mani sporche di colore e capelli pinzati. Che bello, che brava, che bello, che brava, aveva ripetuto contenta di trovarmi in abito da lavoro, sbirciando nello studio dove tenevo il cavalletto e da cui emanava frizzante l’odore della trementina. Mentre mi ero diretta in bagno a lavarmi le mani per prenderle la rivista che mi aveva chiesto in prestito, lei era entrata in salotto direzione libreria. Ti va un tè?, le avevo chiesto mentre l’acqua scorreva nel lavandino. Aveva risposto di sì, volentieri, farfugliando qualcosa che non avevo sentito bene sull’ultima varietà di tè verde che aveva assaggiato in uno dei suoi viaggi all’estero. L’unica cosa che mi piaceva fare in sua compagnia era prendere il tè. Ne gustava l’aroma fino in fondo.Guardandola mentre avvicinava la tazza fumante alle labbra, sentivo che traeva da quella bevanda lo stesso piacere ristoratore che traevo io. Non mi succedeva con nessun altro. Era un piacere che iniziava dalla percezione olfattiva di ogni sfumatura di quell’effluvio, che, lentamente, liberandosi dalla porcellana, era capace di avvolgere in un abbraccio rassicurante chiunque vi si abbandonasse, e che continuava poi dentro, una volta che il prezioso liquido, rossastro e asprigno, sprigionava il suo calore irradiando ogni organo. Mi piacevano anche le sue dita bianche affusolate con le unghie smaltate di rosso vermiglione sulla tazza. Avevamo bevuto un delizioso tè nero alla cannella che mi aveva portato di recente un amico da Canterbury,accompagnato da fragranti biscotti all’arancia. Considerata nella per me amabile veste di bevitrice appassionata di tè, era divenuto più semplice affidarle non solo una rivista a cui tenevo, ma anche un libro, di quelli che si usano definire “cult”, che mi aveva confessato di non aver mai letto.“Grazie del buon tè, ne avevo proprio bisogno, non mi capitava da mesi di prenderne una tazza seduta comodamente su un divano”, aveva detto con uno di quei suoi sorrisi che usava per dirti che con un piccolo gesto le avevi salvato la vita. Poi, con un lungo sospiro, aveva aggiunto “Beata tu…”. Ci eravamo salutate con un abbraccio che lei aveva condito con quel suo solito odioso breve massaggio sulla schiena a significare falsamente “quanto mi sei cara, resterei qui ad abbracciarti per secoli”, dopodiché avevo aperto la porta e avevo aspettato che l’ascensore arrivasse al piano e la inghiottisse (l’incantesimo prodotto dal tè stava scemando a vista d’occhio). La Betta era indiscutibilmente convinta di far parte della Meglio Gioventù Mondiale e considerava se stessa, i suoi collaboratori e pochi altri giovani intellettuali locali come gli unici legittimati a ritenersi parte di un’élite che aveva tutte le carte in regola (e anche di più) per dare il suo valido contributo alla crescita civile e culturale di Palermo e dell’interoPianeta. Una sera io e gli altri le avevamo fatto sapere che saremmo andati insieme al cinema, lei aveva risposto che purtroppo non avrebbe potuto aggregarsi. Ci eravamo appena seduti, quando uno di noi si era accorto che era entrata lei con un’amica. Stesso genere di cappottino su gonna lunga fino alle caviglie, stesse sciarpe realizzate a mano intorno al collo, stessi scarponcini con grossa para di gomma, stesse borse grandi di pezza con tracolla lunga. Le avevamo allora fatto un cenno e lei,scorgendoci, ci aveva salutato spalancando gli occhi in segno di sorpresa: Che ci fate qui???, diceva il suo sguardo da sotto gli occhialini alla John Lennon. Il film era il primo di una rassegna sul grande regista giapponese Yasujiro Ozu, la Betta non si capacitava di come noi poveri sfigati che si erano laureati nelle migliori università di tutta Europa e però erano finiti ad insegnare nelle scuole superiori, potessimo provare sincero interesse per un film non solo giapponese, ma pure in lingua originale e in bianco e nero. Il mondo faceva piccoli passetti in avanti e la Betta, guardandolo dall’alto, applaudiva al suo indirizzo regalandogli il suo sorriso compiaciuto e distante. Una volta l’avevamo incontrata in aeroporto. Era diretta a Bruxelles. Rammaricata di non aver potuto assistere per l’ennesima volta a un concerto che il mio fidanzato di allora aveva tenuto al Conservatorio, l’aveva costretto a farle sentire qualcosa al pianoforte della sala partenze. Per tutto il tempo non aveva fatto altro che ascoltare con un’espressione estasiata, dopodiché avevano annunciato il suo volo ed era scappata dicendo meccanicamente bravissimo bravissimo, quanto mi dispiace oggi che il mio aereo non sia in ritardo. Al ché avevo guardato Andrea con uno sguardo assassino facendogli capire che gli stava bene, se l’era meritata, il cretino.
Come ogni intellettuale che si rispetti, anche la Betta aveva un vezzo, il suo era la passione per le scarpe. A volte me ne piacevano un paio, ma evitavo di domandarle dove le avesse comprate, poteva rispondere infatti,sorridendo desolata, che si trattava dell’ultimo paio che aveva trovato in un negozietto di seconda mano a Brema o a Vattelapesca. Insomma, la Betta meno parlava (e soprattutto, meno sorrideva) e meglio era per tutti.
Ci era tornata in mente una sera di inverno, quando la figlia di Pietro e Giovanna aveva manifestato,mentre eravamo tutti a cena da me,il desiderio di iscriversi ad un dottorato di Filosofia in Germania. Ci eravamo guardati in silenzio per qualche secondo e poi eravamo scoppiati a ridere.
Ma poi perché a un certo punto avevamo cominciato a chiamarla “la Betta”? Ma sì, per via di quella volta che aveva telefonato a casa di una sua collega di università di Milano dicendo alla madre della ragazza di riferirle che la cercava “la” Betta!
Non viveva più a Palermo; dove fosse, di cosa si stesse occupando, nessuno di noi lo sapeva. Poco alla volta ci aveva abbandonati al nostro destino di persone nonostante tutto normali, interessanti a volte, ma pur sempre affezionate a quella vita periferica, lontana dagli epicentri culturali europei, che si poteva svolgere in una città del sud come la nostra. A me sembrava persino divertente, di fronte alla Betta, provare tutto quell’attaccamento per un luogo che sulla carta avrebbe potuto stare un po’ stretto anche a me (che oltretutto non vi ero nata). In fondo ero però persuasa che i tipi come lei si sarebbero sentiti sprecati ovunque, con quelle facce da missionari saputelli che distribuivano qua e là provviste di cultura soddisfatti di contribuire a risollevare un pochino il livello di tanti poveretti meno fortunati.
Ma il mondo girava così, e a tutte le latitudini continuava a rivelarsi sempre molto arduo trovare qualcuno con cui prendere il tè che avesse dell’ingegno e fosse anche un’anima bella.