Nella percezione dell’esistente, la Figura è al centro della conoscenza. La sua forma è rassicurante apparenza di qualche cosa che siamo abituati a riconoscere, ma anche a immaginare come parte integrante della Realtà. Non abbiamo mai visto la Luna dal vero, ma quell’immagine divenuta familiare, appartiene alla Realtà, siamo in grado di riconoscerla.
Lo stesso accade per l’arte. Quando mostra l’immagine che si costruisce per profondità e che ci permette di riconoscerci, nell’inconscio e nell’anima, a confronto costante con la nostra ignoranza, che tuttavia ha del meraviglioso. Perché è proprio in quello spazio vacante del sapere, che ha sede l’immaginazione.
Una Forma non è mai solo simile a se stessa, va preparando quella successiva. Sappiamo da oltre un secolo che anche l’interiorità prende forma nel nostro pensiero, diventa epifania metaforica, si avvale della non riconoscibilità, pur dichiarandosi come assolutamente autentica. I peggiori incubi, le più sublimi visioni, si concretizzano in forme che assumono una importanza esemplare, per capirsi, o tentare di capirsi, attraverso l’identità.
Fare una bella figura, oppure una brutta figura. Indossare un abito informale, oppure un abito formale, nelle giuste circostanze, è un modo simbolico per dichiararsi pronti per affrontare le circostanze.
La figura nell’arte visiva
Nell’arte visiva l’abito è lo stile attraverso il quale l’artista si scava per riversare nell’opera il proprio talento. Anche il corpo assume nel tempo una sua forma determinata dal lavoro svolto, dalle proprie abitudini. Nell’arte, la figura prende forma dal gesto dell’artista, e nel XX secolo, il gesto è spesso tutto quello che rimane della figura. Sgretolata nella ricerca del suo artefice per sapere da dove trae origine, per accedere al nucleo della forza creatrice dell’arte.
L’artista rende ‘parlante’ la forma, sia quando la crea simile al vero, sia, anzi, ancor più, quando riesce a dare forma all’informe. E’ quello che fa Angelo Molinari con la sua ‘esibizione’ di una furia calma, studiata, sapiente, emergente dalle larghe pennellate di uno strumento adeguato come i pennelli cinesi che stanno religiosamente appesi a testa all’ingiù, nel suo studio di Ameno, e dei quali si serve con maestria, tra colori opachi e timbrici che si salvano da una iconoclastia al limite della cancellazione totale, sfida dell’esistente per immagine attraverso interruzioni continue di cui si salva spesso soltanto un angolino di colore, facente parte della stesura a pennello appena cancellata.
Angelo Molinari
Angelo Molinari ha studiato a Venezia, negli anni in cui Vedova era presente ogni anno alla Biennale con una sala, o una parete. La via della cancellazione per annientamento del segno precedente, nelle poetiche tachiste, informali, gestuali, dalla metà degli anni ’50, ha insegnato la via maestra dell’astrazione a base affettiva, a più generazioni di artisti che pure non hanno molto in comune per i risultati, ma in comune hanno quello che non volevano essere, e anche questo è importante. Non hanno molto in comune tra di loro Hartung, Vedova, Mathieu,tanto per citarne tre tra i grandi gestuali europei, se non quella disgregazione della verosimiglianza, a favore della messa in atto di una verità spietata che attinge dall’inconscio, dopo l’insegnamento di Freud che ha dato la possibilità di fare un ‘ritratto’ dal vero avendo come soggetto l’inconscio.
La figura umana interessa Picasso e suoi seguaci, ma ha già perduto la sua alterità con i morti della guerra, e infatti gli artisti che alla figura non rinunciano, la dipingono straziata dalle ferite, e dalla sconfitta, specialmente della ideologia che l’avanguardia disprezza.
Nel XX secolo l’astrazione ha trionfato, sebbene sia rimasta, in molte occasioni, una blasfemia del vero, unico soggetto capace di omaggiare quella nostra realtà che ci indica la strada con tutti gli inganni del caso.
Dall’arte concettuale alla pittura gestuale
Molinari, dopo un periodo giovanile contiguo all’arte concettuale, si rivolge alla pittura gestuale, ma garantendosi una sua individualità che lo differenzia dai tanti. Pittore per eccellenza, da pittore si lascia sfuggire dalle mani un fluido più lento e senza pathos, ricevendo in cambio la bellezza.
Inizia a segnare la tela bianca con un primo largo gesto del suo pennello cinese, con il quale dà inizio all’opera. Pennellata che probabilmente non vedremo, coperta da tutte quelle successive. So che procede in modo calcolato, con incroci aritmetici. Usa colori base, tempere murali (come faceva Lucio Fontana) per averne garantita l’opacità. Rosso, giallo, verde, blu, e su tutto questo, tanto nero. Oppure bianco. E siccome fare pitture bianche è difficilissimo, ecco che l’artista usa il bianco come una calce che cancella tutto, affidandosi al ritmo delle velature, ma siccome usa colori coprenti, ecco che la cancellazione , pur prudente, diventa importante.
Nelle opere recenti il nero si mangia quasi tutto, e di quel tutto, ci rende la forza, unita alla poesia, che non dovrebbe mai mancare, nell’arte. Ci rimane un nero che si lascia sfuggire qualche brano di colore, ma che affida il gusto del coprire, il messaggio che Molinari ci concede, quello di un programma di cancellazione, che colpisce per la sua fatica, nel cancellare, scegliendo con amore gli sprazzi di colore salvaguardato dalle stesure gestuali precedenti.
Di questo lavoro che procede per sacrificio, si percepisce quel pathos, rifiutato all’inizio, che invece è il risultato finale. Trittici neri, stesure a pennello gigante di smalto nero, quasi rovinano il dipinto, e invece sono la sua ricchezza, per darci la sensazione che si tratti di uno tsunami qui reso Figura del terrore, in lizza con la bellezza.
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