Nella temperie che vede oggi la “danza danzata”, quel genere che si affermò nel secolo scorso, quasi soccombere di fronte alla “non-danza”, alla “non più danza”, alla “danza aumentata”, all’installazione, ai lavori site specific e alla performance, i confini tra contesti artistici sono sempre più labili. Cosa andrebbe inserito dunque ora nella scatola “teatro”? Cosa nella scatola “danza”? Cosa nella scatola “arti visuali”? E dove? Nelle gallerie, nei musei, nelle sale di spettacolo tradizionali, o in spazi alternativi? La Biennale di Venezia 2019, May you Live in Interesting Times, a cura di Ralph Rugoff, esemplifica con chiarezza questa permeabilità dei terreni disciplinari, superandoli su piste intrecciate e innestate nel problematico e complesso presente planetario. Uomini e donne di più paesi costeggiano aree aperte a più mezzi, pratiche, strumentazioni, tematiche.
Lara Favaretto ha plasmato con le sue azioni e i suoi gesti un paesaggio in cemento mentre si andava solidificando. L’americana Martine Gutierrez ha fotografato manichini in posizioni seducenti e modelle-icone-demoni, che vanno oltre il sistema binario di maschio e femmina. La coreana Suki Seokeyong Kang in Land and Strand si rifà a un ballo di Corte della dinastia Joseon (1392-1897) chiamato chunaengmu, usando la griglia spaziale in cui questa danza si sviluppa per strutturare un suo spazio installativo e creando una partitura visiva dove inserisce elementi prodotti artigianalmente dalle donne del suo paese.
La georgiana Anna K.E. in Rearmirrowview realizza un’opera che è sia ambiente architettonico, sia installazione video: un sala da bagno-piscina, con acqua e piastrelle e schermi su cui l’artista (ballerina di formazione) appare impegnata in vari set di movimento; un habitat levigato per un corpo addestrato. Da Singapore Song-Ming Ang gioca la carta della corporeità usando variazioni su un tema in Music for Everyone; dal Giappone Mari Katayama, con le sue bambole a grandezza naturale cucite a mano, rinvia al teatro di marionette Bunraku, da muovere con mani e gomiti femminili. La polacca Maria Loboda per Egyptian Tumbler guarda agli acrobati dell’Antico Egitto. Sull’identità la danza attuale si interroga con molta forza, così come le arti. A Venezia-Artela sudafricana Zanele Muholi si dichiara con orgoglio nera e lesbicamentre Africobra, mentre Nation Time rivendica l’emergenza di una cultura black su tutti i fronti, fatta di ritmi e colori peculiari.
Shu Lea Cheang di Taiwan, nota come “riprogrammatrice del corpo”, con Casanova della serie 3x3x6 evoca la cultura trans-punk in ogni aspetto, sessualità compresa; il peruviano Christian Bendayán pesca nell’estetica transgender per Indios Antropófagos; da Los Angeles Ian Cheng porta BOB (Bag of Beliefs) ovvero un corpo non umano, una forma di intelligenza e vita artificiale, gestito interagendo con una app iOS. E anche su corpo e tecnologia non da ora la danza contemporanea si esprime, al pari di altre arti. Anicka Yi da Seul si dedica a mostrare in Biologizing the Machine processi di dialogo tra esseri umani, cyborg e automi, mentre Hwayeon Dam propone Dancer from the Peninsula. Dall’Austria Renate Bertlman offre immagini che sono il frutto di un marcato impegno esistenziale, tra cui Let’s dance togheter, con una sposa in sedia a rotelle. Dalla Grecia giunge in Laguna The glass dance di Panos Charalambous, mentre Kris Lemsalo dall’Estonia approda qui con le sue bizzarre performance sciamaniche. Da Kiribati ecco infine la danza del gruppo Kairaken, perché la tradizione non si disperda, anche nella post-contemporaneità odierna.